Undici dicembre 1943. Ventuno dicembre 1943. Due anniversari a 70 anni dai fatti. Gli italiani non ne sanno più niente se non qualche vegliardo. I giovani meno che meno, allontanati dalla storia patria con la violenza e perfidia della dimenticanza programmata.
Due grandi figure della Resistenza italiana in quei giorni sono arrestati. Il primo è Leopoldo Gasparotto, 42 anni, varesino d’adozione di Ligurno di Cantello, avvocato, fine intellettuale. grande esploratore ed alpinista, comandante militare delle formazioni “Giustizia e Libertà”. Morirà fucilato dalle SS poco fuori il campo di “smistamento di polizia” di Fossoli-Carpi, anticamera dei lager del Reich, il 22 giugno 1944.
Il secondo è Giancarlo Puecher Passavalli, venti anni, comasco, studente universitario, cattolico, fucilato il 21 dicembre 1943, un mese dopo la cattura, di notte, alla luce tremolante dei fati di alcune vetture dopo aver abbracciato e perdonato, uno ad uno, i suoi carnefici. Entrambi sono medaglie d’oro al Valor Militare della Resistenza. In due parole, padri della Patria. Due mattoni su cui è rinata la libertà.
Gasparotto e Puecher Passavalli. Chi saranno mai stati questi due italiani che al posto di stare nell’ombra a cullare i loro averi, le loro comodità e i loro hobbies, si sono esposti al punto di pagare con la vita i loro ideali di libertà e di democrazia?
Fatti passati, lontani. Oggi la discissione ha spostato il suo asse sui ladri matricolati della nostra Repubblica eppure qualche riga è dovuta a questi uomini di un’elevata statura morale
Leopoldo Gasparotto, “Poldo” per gli amici, figlio di Luigi, senatore del Regno, radici friulane. Benestante, studioso, amante della montagna. Poteva, dicevamo, stare lontano dalla lotta. Eppure come altre belle figure della borghesia lombarda, subito dopo l’8 settembre esce allo scoperto, tenta di organizzare a Milano una Guardia Nazionale su base volontaria per respingere l’attacco dei tedeschi ormai alle porte della città ma deve battere in ritirata quando il generale Vittorio Ruggero, comandante della Piazza di Milano, dopo aver promesso le armi ai rivoltosi, si arrende all’occupante. Gasparotto fece il contrario: fra la Brianza, le Prealpi bergamasche e la bassa Valtellina organizzò i primi gruppi armati che con il passare del tempo si sarebbero sviluppati dando vita a importanti formazioni. Anche dalla bella villa di Ligurno dove aveva attrezzato una pista d’atterraggio per il suo piccolo “Breda” (poi razziato di tedeschi) pensò con Guglielmo Mozzoni, il leggendario “corriere” del Clnai da Lugano, di mettere su una banda partigiana fra il Brinzio e la Martica ma il disegno andò a vuoto. “Varese non risponde” fu il secco, mortificante giudizio di Gasparotto ad un allibito Mozzoni giunto da Varese a Ligurno su un calesse guidato dal padre.
Archiviata la fase organizzativa, Gasparotto dalla “base” di piazza Castello a Milano avviò il lungo cammino che avrebbe dovuto portare le bande, sorte sotto l’ombrello politico del Partito d’Azione e denominate “G.L.” (acronimo di Giustizia e Libertà) ad assumere una linea politica precisa senza disdegnare un’unità di intenti con le altre forze in campo.
Era il tema che più gli stava a cuore. Disporre di combattenti coscienti della loro missione in grado di condurre la lotta in base a principi assoluti. Un’operazione avviata fra molte difficoltà, soprattutto fra incomprensioni, sospetti, trappole di ogni genere. Gasparotto, audace, votato al rischio, senza troppe precauzioni, si era recato più volte nelle “basi” delle bande, aveva svolto riunioni, conosciuto gli uomini, fatto appello all’amor di patria, incitando i partigiani al combattimento.
L’11 dicembre, tre mesi dopo la disfatta dell’8 settembre, ci fu l’arresto. Una delazione, malgrado avesse avuto sentore del pericolo, l’aveva fatto cadere a Milano presso il suo Comando con altri compagni. Solo una ragazza, Edmea Maggiolo, varesina, per il ritardo del treno delle “Nord” si era fortunosamente salvata. Portato a San Vittore Gasparotto fu interrogato, percosso, torturato dai tedeschi. Non parlò mai. Il 27 aprile fu trasferito a Fossoli. In Germania però non ci andò.
Come ha rivelato il suo prezioso “Diario”, edito nel 2007 con la prefazione di Mimmo Franzinelli per i tipi del torinese Bollati e Boringhieri, custodito per decenni da un amico a cui, in extremis, prima della morte, era stato affidato, Poldo Gasparotto all’interno del campo sviluppò un’intensa azione politica, aggregando prigionieri di ogni età e religione, classe sociale, cultura, posizione politica. Si eresse a capo. Fu questa la ragione per decretare la sua fine. Dal comandante della Gestapo di Verona Wilhem Harster partì l’ordine di eliminarlo. Dalla città veneta, sede territoriale del Comando, giunse a Fossoli un “commando” SS che prese in carico il prigioniero, lo portò fuori dal campo e lo assassinò con una sventagliata di mitra alle spalle. “Fatene una questione internazionale-suggerì Leo Valiani agli amici di “G.L.” in Svizzera-e informate la famiglia”.. Il padre Luigi era a Lugano. La moglie di Poldo, Nuccia Colombo, varesina, era rientrata in Italia coi due piccoli figli per combattere.
Il corpo di Poldo Gasparotto venne consegnato alle 8 del mattino del 23 giugno 1944 dai tedeschi al custode del cimitero di Carpi. Tacquero il nome della vittima ma si venne a sapere. Il corpo fu riesumato il 29 aprile 1945 dalla fossa comune e tumulato al Monumentale di Milano.
Giancarlo Puecher Passavalli, 20 anni, famiglia borghese, studente in giurisprudenza, ex allievo ufficiale pilota, volontario 5° Alpini, il padre ucciso a Mauthausen, all’apparire dei tedeschi nel Comasco il 13 settembre del ‘43, aveva fatto la sua scelta. Non aveva avuto dubbi. Si era schierato con i primi gruppi di Resistenza che anche in quella fetta tranquilla della Brianza stavano mettendo radici attorno a un Comitato clandestino di Ponte Lambro coordinato da don Giovanni Strada e in collegamento con Poldo Gasparotto.. Era un ragazzo d’oro, serio, studioso, praticante. Proprio la sua grande fede gli aveva suggerito dove andare, un po’ come Gasparotto, di fede laica, ma con molti altri punti in comune. Per esempio la fine, questa volta per mano fascista.
Fucilato dopo un processo farsa in cui i giudici di un illegale Tribunale Straordinario militare (gli imputati non erano stati sorpresi in flagranza di reato) presieduto dal tenente colonnello Biagio Sallusti avevano deciso ciò che il potere politico di Como aveva stabilito. La pena capitale.
Puecher era stato sorpreso la tarda sera del 12 novembre 1943 con un compagno, l’ex ufficiale degli alpini Franco Fucci di poco più anziano (23 anni) mentre da Canzo si stavano dirigendo a Erba. Lo scopo della “missione” era dimostrativa. Fare scoppiare un rudimentale ordigno sotto la finestra del podestà e far trovare a chi era accorso dei manifestini scritti a mano inneggianti alla libertà. Se non ci fosse stata la guerra poteva assomigliare ad una goliardata. Nessuna volontà delittuosa, solo propaganda.
Nove chilometri la “biciclettata” per l’andata, sette chilometri per il rientro a Lambrugo nella casa di campagna dei Puecher. Tutto era stato ben calcolato. I rischi nulli. I danni improbabili dal momento che, per l’ora tarda, tutti erano a riposare. All’improvviso a Lezza, mentre la coppia stava entrando a Erba, l’altolà, Una pattuglia della Milizia aveva fermato i due e chiesto i documenti. Soprattutto si era insospettita per quell’andare in giro di notte di Puecher e Fucci che ignoravano che proprio qualche ora prima erano stati uccisi per mano ignota dei camerati. I militi avevano disposto il trasferimento per accertamenti dai carabinieri. Puecher nel frattempo si era disfatto della sua pistole. Ma all’improvviso il Fucci, autonomamente, senza che avesse avvisato Puecher, aveva fatto fuoco per tentare la fuga. La reazione era stata immediata: il Fucci era caduto a terra ferito gravemente ma si sarebbe salvato.
Giancarlo Puecher, estraneo alla sparatoria, era stato percosso e trasferito al carcere comasco di San Donnino raggiunto dal padre, notaio Giorgio arrestato qualche ora prima. L’accusa sollevata dal Capo della Provincia Scassellati Sforzolini e dal Questore Pozzoli era stata quella di omicidio contro due fascisti nella mattinata, una menzogna per sostenere la condanna a morte. Per Giancarlo da quel momento iniziò una Via Crucis. Nelle mani del famigerato Commissario di polizia Domenico Saletta e del milite Aldo Calesella conobbe giornate tremende fra pesanti interrogatori e maltrattamenti brutali. Il processo, al Municipio di Erba, ebbe sette imputati, Puecher e altri sei antifascisti, un ingegnere, uno scultore, un commerciante, degli impiegati. Per il Pubblico Accusatore due condanne a morte. Puecher e Giudici, l’ingegnere. Se ne aggiunse un’altra all’ultimo momento voluta dalla segreteria del Partito fascista e trasmessa per competenza ad un Tribunale imbelle che era al servizio di altri. Puecher attese sereno il verdetto.
Scrisse al padre, con cui aveva avuto un breve colloquio poco prima, una lettera di tre paginette con calligrafia lineare che non tradiva emozione: “Muoio per la Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato e spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimavano. Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che satamente mi educò e mi protesse nei venti anni della mia vita. L’amavo troppo la mia Patria, non la tradite e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno. A te Papà vada l’imperituro grazie. Ho sempre creduto in Dio e perché accetto la sua volontà”. Con altro scritto aveva disposto dei suoi “beni” “dulce et decorum est pro Patria mori”. Qualche migliaio di lire agli amici più cari e alla guida alpina di Madonna di Campiglio e a Elisa Daccò “il mio anello d’oro” memore “del bene che le volli che forse non sufficientemente apprezzò”.
Il plotone dei militi puntò nella fredda notte vicino al cimitero di Erba e fece fuoco. Erano le due di notte del 21 dicembre 1943. Puecher cadde fulminato, le mani slegate come aveva chiesto. In mano il Rosario e un’immaginetta della Madonna.
Nell’estate del ’44 a Brescia l’avvocato Piero Pisenti, guardasigilli della Rsi, riconosciuta la nullità del processo di Erba e l’arbitrarietà delle condanne inflitte da quel Tribunale, fece scarcerare tutti i coimputati in espiazione di pena.
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