Fa parte della leggenda del cinema, ormai, la scelta di Marlon Brando per il ruolo di Don Vito Corleone nel primo film della trilogia del Padrino (The Godfather, 1972), di Francis Ford Coppola, tratto dal famoso romanzo sulla mafia italo-americana di Mario Puzo. Brando, in quell’epoca, nonostante non avesse ancora cinquant’anni, non era un attore particolarmente benvoluto a Hollywood per le sue bizze e per la sua esosità. Ma voleva tenacemente la parte e quando l’attore si presentò per un provino di fronte a Coppola, di cui era amico, con le guance imbottite di ovatta, la voce roca e bassa, lo sguardo torvo, il regista non ebbe alcun dubbio: Don Vito era proprio lui.
Furono subito entusiasti anche gli ignari dirigenti della casa di produzione, la Paramount: “Scritturiamolo. Poi quest’attore… sconosciuto non ci dovrebbe nemmeno costare molto”. Era fatta. Marlon Brando, oltretutto, fu molto accorto e per quel film non volle essere pagato ma si “accontentò” di una percentuale sugli utili eventuali.
Il Padrino, negli Usa, e soltanto nel primo anno di programmazione, incassò cento milioni di dollari. Fu in assoluto uno dei film di maggior successo a livello mondiale. E l’anno successivo a Marlon Brando fu assegnato il secondo Oscar della carriera (il primo l’aveva ottenuto nel 1955 per l’interpretazione di Terry Malloy nel film di Elia Kazan Fronte del porto (On the Waterfront). Alla consegna della statuetta, al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, Marlon Brando non si presentò, come suo uso provocatorio in quel tempo, ma inviò in sua vece una ragazza apache, Sacheen Littlefather. La donna dichiarò che Brando rifiutava il premio come protesta contro l’industria del cinema che aveva sempre offeso i pellerossa considerandoli dei selvaggi, mentre in realtà erano stati sterminati dagli invasori bianchi. In quello stesso anno Il Padrino conquistò altri due premi Oscar, come miglior film e come miglior sceneggiatura non originale.
La filmografia di Brando – unanimemente considerato uno dei più grandi interpreti del cinema di tutti i tempi – non è foltissima, annovera poco più di una quarantina di titoli dal 1950 (Il mio corpo ti appartiene -The Men, di Zinneman), quando l’attore aveva 26 anni, al 2001 (The Score, di Frank Oz), l’ultima sua presenza sul grande schermo, tre anni prima della scomparsa. Ma se si va a guardare l’elenco delle opere e delle interpretazioni, specie quelle degli inizi, si trovano solo capolavori, tutti film che hanno segnato un’epoca straordinaria: da Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire, 1951, ancora di Elia Kazan) a Il Selvaggio (The Wild One, 1954, di Lazlo Benedek); da i Giovani leoni (The Young Lions, 1958, di Edward Dmytryk) a Gli ammutinati del Bounty (Mutiny on the Bounty, 1962, di Lewis Milestone), e alla Caccia (The Chase, 1966, di Arthur Penn). Di quest’ultimo, inoltre vi è un ricordo particolare, essendo stato il film che aprì la programmazione del cinema Vela di Masnago, proprio alla metà degli anni Sessanta. Insieme con Brando figuravano tra gli interpreti Jane Fonda e Robert Redford, allora entrambi di ventinove anni.
Truman Capote ha scritto che furono gli anni Cinquanta, più dei Sessanta, a preparare la svolta del Novecento (tutte le ribellioni e le contestazioni, i beatniks, i figli dei fiori…), e Brando con i suoi film e le sue magistrali interpretazioni ne era stato il volano. Più dei romanzi di Kerouac o del rock di Elvis.
Un altro grande scrittore, Norman Mailer, stando ad alcune biografie, stava invece con i piedi ben piantati per terra. Gettava acqua sul fuoco dell’entusiasmo, e a chi magnificava le doti preveggenti di Brando, alla metà degli anni Settanta, solo venti dopo i “fatidici” Cinquanta dunque, mostrava le foto dell’attore com’era diventato: un uomo bolso, mezzo calvo, con un’espressione che non era certo quella del fascinoso e rude Johnny del Selvaggio. E poi Brando (e meno male per lui…) non aveva nemmeno avuto la “magnifica” sorte di assidersi tra le divinità, come Jimmy Dean o Marilyn, entrambi richiamati nell’Olimpo in giovane età.
Gli anni Cinquanta, aggiungeva Mailer, erano ricordati come grandi e “formidabili” solo da coloro che rimpiangevano i tempi andati e la giovinezza perduta. Mailer, che nei Cinquanta di anni ne aveva già una trentina, li definiva insulsi e vuoti; ricordava – anche nel cinema – la “caccia alle streghe” del senatore McCarthy, la guerra di Corea, anni ottusi e inquietanti anche politicamente. E forse – sosteneva – un po’ sciocchi.
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