“Conosco uno che quando gli domando che cosa sa, mi chiede un libro per mostrarmelo; e non oserebbe dirmi che ha il deretano rognoso, senza andare immediatamente a studiar sul suo lessico che cos’è rognoso e cos’è deretano”. Vorrei dare luogo, con questa brano tratto dai saggi di Montaigne, dedicato alla pedagogia, a un paradosso, a una narrazione che paia contraddirsi nel suo significato, proprio nella modalità del suo sviluppo; vorrei dare spazio cioè a qualche cosa che invogli al nuovo facendo continuamente ricorso al già detto.
Il motivo nasce dalla crescente sensazione che molti campi del nostro ragionare, dalla scienza alla politica, dalla relazione interpersonale alla cautela prudente nel motivare tutti i giorni i perché del nostro agire si fondino, anzi no, riposino sul già detto, ma senza la voglia di trarre una novità che sia nuova veramente, nostra, mai detta. E questo accade a congressi, sedute di laurea, discorsi comuni fra la gente dove il già detto, il già ascoltato, l’ipse dixit declinato alla maniera del ventunesimo secolo, volentieri smorza la fatica di metabolizzare e inventare.
Il perché di questo risiede nella violenza del comunicare di oggi, dove l’ascolto cede il passo alla superbia del generare sistemi perfetti, programmi che alla base abbiano più che l’idea di costruire, l’esigenza di difendere la propria stabilità e durata: “Prendiamo in custodia le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. A che cosa ci serve avere la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo, se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?…Ci lasciamo andare sulle braccia altrui al punto da annullare le nostre forze”.
Fatemi proseguire su questo paradosso formale dove possa dare voce a un sentimento, magari solo nuovo per me, a voi tutti noto e scontato, ma citando a piene mani Montaigne, pedantemente. La cultura “avrei potuto prenderla in me stesso, se mi ci avessero abituato. Non mi piace affatto questa scienza relativa e mendicata”. E allora è un vero fatto pedagogico e di libertà: saper creare un ambiente dove convivano la creatività e l’unicità delle creature ma nell’amplissima e pur concreta, fondata trama dell’esperienza comunitaria, che sia passata o presente; riuscire a conciliare un fatto “relativo” nel senso di originario, ma con la vocazione di mettersi in relazione di ascolto e contemporanea ricezione del valore di una cultura, di un’appartenenza quindi, non già di riduzione a una modalità propria e solipsistica di vedere il mondo.
“Quand’anche potessimo essere sapienti del sapere altrui, saggi, almeno, non possiamo esserlo che della nostra propria saggezza”. Conosci te stesso, diventa ciò che sei, sono refrain che spesso affollano le nostre orecchie e sono moniti a… “rassegnarci?” al nostro essere individui così come siamo stati fatti, formati dal cammino che qui e ora ci ha voluti, ma anche a trovare la passione di dire, a nostro modo, qualche cosa di più alla comunità alla quale apparteniamo, aperti allo scambio, permeabili a quello che ci porta, ricettivi ma, con il tempo, buoni artigiani della materia che ci viene affidata per darle una forma mai vista da restituire agli altri perché ne facciano tesoro, meraviglia ai loro occhi, e domani ci venga restituita per impressionare di nuovo il nostro sguardo.
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