La riforma elettorale è considerata da tutti una priorità, a parole. Se non è ancora stata approvata le colpe non stanno da una parte sola, meglio dirlo subito. Come ha scritto Michele Ainis sul Corriere di qualche giorno fa, “il porcellum non ha mogli, però è stracarico di amanti. In pubblico non lo vezzeggia mai nessuno; in privato lo sbaciucchiano molte signorine licenziose”.
Sennonché la proposta del costituzionalista di risolvere il problema con un decreto legge del governo è contestata da molti altri costituzionalisti e dal ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello con una tesi fondata. La riforma elettorale è materia parlamentare nella quale il governo può aiutare, supportare e orientare il dibattito non già sostituirsi al Parlamento.
C’è una sola vera preoccupazione in questo campo. Non si dovrebbe cambiare solo il sistema elettorale ma anche il sistema di governo. È una tesi molto valida. La forma di governo è logora e invecchiata. Andava bene nella prima Repubblica con una stabilità politica molto forte imperniata su due poli: la DC e suoi alleati da una parte, il PCI dall’altra.
I due cambiamenti più radicali che si confrontano fanno riferimento all’elezione diretta del Presidente della Repubblica (sistema semipresidenziale francese) e all’elezione diretta del premier. Entrambe avrebbero il pregio di determinare indiscutibilmente chi guida l’Italia per cinque anni. Entrambe, oltre a qualche controindicazione, hanno il “difetto” di richiedere una modifica costituzionale dai tempi lunghi e dall’esito incerto. Esigono una maggioranza di almeno il 50% del Parlamento e poi eventualmente il referendum se non si è raggiunta la quota di due terzi.
Dei due referendum costituzionali che si sono finora tenuti, il primo sul sistema delle Regioni e delle Autonomie locali (Titolo V), approvato dal centrosinistra, è andato a buon fine nel 2001; il secondo sul cambiamento dell’assetto istituzionale nazionale, approvato dal centrodestra, è fallito nel 2006.
C’è però un’altra linea che potrebbe coniugare bene la riforma del sistema elettorale e del sistema di governo senza bisogno di modificare la Costituzione. È la proposta di Roberto D’Alimonte (studioso dei sistemi elettorali) adottata da Matteo Renzi nella sua piattaforma congressuale. “È una riforma che mette in grado i cittadini di decidere chi governa e che costringe chi governa a rispondere direttamente ai cittadini, senza alcun alibi. Si tratta del doppio turno di lista (cioè di coalizione) con un premio di maggioranza concesso solo a chi arriva almeno al 40% dei voti (e non a chiunque prenda un voto in più, come accade oggi)”.
“La novità più importante è che, se nessuno arriva al 40% (o al 45 o al 50%) i due partiti o le due coalizioni più votate vanno al ballottaggio. E di conseguenza, al secondo turno, il premio si assegna a chi ha il 50% più uno dei voti. È un modo molto semplice ed efficace per assicurare che ci sia un vincitore e che il vincitore possa governare. Così si garantisce chiarezza dell’esito del voto, bipolarismo e alternanza senza modificare la Costituzione”.
Anche chi, come me, ritiene molto valido il sistema semipresidenziale francese, deve ammettere che la strada indicata da D’Alimonte (che Renzi semplifica con la formula del Sindaco d’Italia) è molto più semplice perché richiede soltanto una legge ordinaria.
Si tratterebbe di un cambiamento profondo. Per questo sarebbe stato auspicabile che alle prossime primarie per il leader si fosse potuta presentare una tesi specifica su questo tema per sentire il parere degli elettori quanto meno del PD. Quanti voteranno per Renzi senza sapere che questa è una delle sue proposte più incisive e dirompenti? E quanti voteranno per Cuperlo o Civati magari concordando su questa tesi non presente nei loro programmi? Tanti, certamente. Purtroppo questo argomento non è ancora entrato nel dibattito sulla leadership del PD ed è un vero peccato.
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