Non ha torto la Lega, rimproverando il PDL di pensare troppo in grande per Varese. Le stazioni unificate, per esempio, che esagerata pretesa. Però la Lega vi ha dato retta per un ventennio, ereditando un’aspirazione (addirittura) del visionarismo pentapartitico di centrosinistra, quando s’ipotizzava il teatro in via San Francesco d’Assisi, poi il suo trasloco alla base di torri dal profilo newyorkese tra piazza Repubblica e via Bizzozero, e ancora l’adattamento dell’ex caserma Garibaldi in auditorium corredato di servizi culturali vari.
Non solo questo, naturalmente. Parcheggi sopra e sotto terra (per dire: in via Staurenghi, angolo via Sempione), bretella di collegamento tra il ponte dell’autostrada e via Casula, sovrappassando per un tratto i binari delle Ferrovie dello Stato, prosecuzione di corso Europa verso Masnago-Casciago, come del resto da originale disegno di percorso. Quanto ai dintorni della città, esercizio di non inferiore fantasia: il solito recupero – una volta in un modo, la volta dopo in un altro – dell’ex Grand Hotel di Campo dei fiori, il ripristino della seconda linea della storica funicolare, l’insediamento tra Capolago e Schiranna della nuova zona sportiva, palasport e ippodromo in coppia, così tanto per stupire.
Insomma, non ci siamo (non si sono) fatti mancare alcun sogno ad occhi aperti. E tutti d’accordo, forse perché senza uno zic d’utopistica ambizione non c’è routine quotidiana che regga alla noia. E annoiandosi ci s’impigrisce. E impigrendosi non vi sono progressi. E mancando i progressi, l’immobilismo diventa cronico, toglie la speranza, ammanta l’esistenza di grigiore, e va a finire che si rimpiange l’epoca in cui le briglie dell’immaginazione si scioglievano in fantasticante allegria. Perciò, contiamoci il vero: la responsabilità del progetto delle stazioni unificate non ha solo un padre, ne ha molti. Come ulteriori progetti, mai arrivati all’epilogo e mai neppure partiti. Pensati. Lanciati. Abbozzati. E successivamente lasciati cadere nel nulla, tra lo scetticismo divenuto indifferenza.
Nel frattempo la città delle piccole cose, del pragmatismo inadatto alla grancassa, delle marginalità da rimarginare, subiva spallucce, trascuratezze, rimozioni. Il fattibile lasciava il posto al futuribile, e chi ne denunziava l’accantonamento veniva giudicato di vista municipalmente corta, di respiro non ritmato con la storia che cambiava, di preconcettualismo negativo verso gl’impulsi della modernità. Oggi bisogna ricordarlo non per una banale questione di singoli orgogli, ma perché altrimenti pare non sia corsa alcuna differenza tra quanti si dividevano la responsabilità del governare in una certa maniera e quanti vi si opponevano sostenendo le ragioni di una maniera alternativa.
Sullo sfondo, mentre andava in scena il serial del mancato rinnovo delle regole urbanistiche, rimaneva (è rimasto fino ad ora) un realistico progetto di “città possibile”, spesso evocato, mai istruito, sempre vago. Né piccolo né grande, semplicemente informe e non pervenuto. Come se Varese rifiutasse d’occuparsi per davvero di se stessa, e di continuo rinviasse la sgradita incombenza prendendo, a mo’ di scusa, impegni per il futuro così pesanti da impedire d’assumerne altri per il presente, sebbene più lievi.
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