Manfredi di Svevia, chi era costui? …si chiederanno in molti tra i lettori; e perché mai dovrebbe interessarci? Due domande legittime, che chiunque abbia la pazienza di arrivare in fondo a quest’articoletto vedrà prontamente esaudite.
Manfredi di Svevia, nacque nel 1232. Era il figlio naturale di Federico II di Svevia, il famoso imperatore cultore delle arti e delle scienze, alla corte del quale, tra le altre cose nacque anche la nostra lirica in lingua volgare. Manfredi successe al trono del padre, dopo che esso era stato brevemente del fratello, Corrado IV. La Chiesa di Roma lo riteneva un usurpatore e lo scomunicò. Quindi non si può certo dire che tra la Sicilia di allora, capitale dell’Impero, e la Roma, sede di Santa Romana Chiesa, corresse buon sangue. Di sangue infatti ne corse tantissimo, ahimè; e lo ricordano in maniera davvero struggente più di una pagina di quel bellissimo Jacopo Ortis foscoliano, che potrebbe essere tranquillamente sostituito a tanti monotoni capitoli dedicati al conflitto tra guelfi e ghibellini che si trovano sui libri di storia e che nulla esprimono di quell’immane tragedia.
Inutile dire che Manfredi se ne fregò altamente delle scomuniche dei pontefici. Anzi esse lo fecero ancora più risoluto nel perseguire il proprio obiettivo: cioè, radunare intorno a se tutte le forze ghibelline d’Italia per diventare il signore di tutto il bel Paese. Il risultato fu un protrarsi di guerre fratricide di violenza e crudeltà davvero inimmaginabili, per noi che oggi in guerra ci mandiamo i droni. Con la famosa sconfitta dei guelfi a Montaperti, nel 1260 il progetto di Manfredi sembrava davvero prossimo al compiersi, forse un po’ come sembrerà, secoli dopo, a Hitler, all’indomani delle Blitzkriege con le quali soggiogherà parte dell’Europa.
Fu allora che, per scongiurare il pericolo imminente, Urbano IV chiamò in Italia Carlo I d’Angiò ad occupare il regno di Sicilia. L’angioino ci si fiondò e, dopo aver percorso quasi tutta la penisola si trovò finalmente faccia a faccia con il rivale, a Benevento. Vi fu una storica battaglia nella quale lo svevo fu sconfitto, nonché ucciso, mettendo così fine al suo sogno di onnipotenza ghibellina sull’Italia.
Questa è, sia pure a grandi linee, la storia di Manfredi di Svevia. È la storia di un uomo abietto, se crediamo alle fonti guelfe, che culmina, un anno prima della morte, con un’ultima scomunica – detta «maggiore», accompagnata da maledizione o anatema – la quale sancisce, con giudizio inappellabile, un’eterna condanna: «dannato, con Satana, i diavoli suoi, e tutti i meritevoli del castigo di Dio, al fuoco eterno». Mica male!
A me però qui interessa in particolare parlare del ritratto che di lui ci dà il nostro pater patriae, nel suo “divin poema”. Sì, perché, di Manfredi di Svevia si occupò anche lui e, come spesso accade al sommo poeta, con una capacità di penetrazione unica. Prima di andare al nocciolo della questione, però, è necessario fornire un ultimo dettaglio della biografia di Manfredi, cui non ho ancora accennato. Sì, perché se la vita dello svevo si spense, come detto, a Benevento, non fu certo questa la fine della sua vicenda. Una lettera di Carlo a Clemente IV ci informa che fu egli stesso a far seppellire Manfredi, pochi giorni dopo l’accertamento della sua morte, secondo alcuni, in prossimità del ponte di San Germano sul fiume Calore, vicino alla città di Benevento. Se non che, l’allora arcivescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli, cui ovviamente non andava l’idea che uno scomunicato riposasse sulla sua terra, ne fece riesumare la salma per disperderla da qualche parte, fuori del regno di Sicilia, oltre il Garigliano, che ne segnava il confine con lo Stato Pontificio. Dettaglio interessante, quest’ultimo, che suggerisce anche una chiara valenza politica: infatti, com’è stato giustamente notato, «l’intenzione del gesto del vescovo era appunto quella di gettare fuori, anche da morto, Manfredi da quel regno di cui egli si era appropriato contro la Chiesa». E qui cito dall’ottimo commento di Anna Maria Leonardi Chiavacci, cui mi sono più volte appoggiato in questa riflessione.
Ecco dunque ciò che emerge dal ritratto dantesco; ritratto storicamente attendibile, si noti: un uomo gravato da due pesantissimi sentenze; la prima dell’autorità religiosa (la scomunica con maledizione); la seconda dell’autorità politica (l’usurpazione del regno). Ma questa è, come sempre accade nella Commedia, solo la premessa storica di una visione a tutto tondo, che trascende la storia stessa e, proprio in questo suo trascendere la storia, lancia la sua provocazione. Il Manfredi di Dante è infatti anche l’uomo che, pochi istanti prima di morire, nel segreto della sua coscienza, si pente, e viene quindi perdonato da Dio. È dunque un uomo sorprendentemente salvo, anche se lungamente soggetto alla condizione purgatoriale. Viene ovviamente da interrogarsi sul perché il poeta—uomo non certo sospettabile di gratuito buonismo—abbia voluto dare di Manfredi un’immagine tanto nuova, che avrà senz’altro mandato di traverso più di una cena a molti ben pensanti del suo tempo.
Come confermano la maggior parte dei commentatori, qui il punto cruciale della questione non è la simpatia del poeta per Manfredi, che tra l’altro non poteva certo essere grande, dal momento che ben noti sono i suoi sentimenti nei confronti dei vincitori di Montaperti. Il punto è invece un’altro. Nella Commedia Manfredi, come avviene per altri personaggi danteschi, viene usato a mo’ di exemplum per affrontare le grandi questioni morali. E qual è la grande questione morale che Dante vuole intavolare in questo caso? Si tratta del giudizio dell’uomo; ed in particolare, di come il giudizio di qualsivoglia autorità umana (sia religiosa sia politica) si polverizzi, a cospetto della rivelazione del perdono di Dio.
Una gran bella lezione, che sembrerebbe doveroso ricordare soprattutto in questi giorni, di fronte a quei pugni, calci e sputi lanciati contro il feretro di un morto ritenuto empio o a quei categorici rifiuti a dargli adeguata sepoltura o davanti al silenzio di chi si esprime quotidianamente, su tutto, ma non su questo. Eccolo di nuovo: l’anatema con maledizione; e con esso quella gran brutta abitudine dell’uomo a fare del suo giudizio un Dio.
C’è chi, in questi giorni, dichiara che la memoria deve essere la luce per il futuro. Niente di più giusto! Facciamo dunque memoria della sofferenza inflitta, sopratutto ai nostri connazionali di origine israelita, dai rastrellamenti, le deportazioni e le stragi nazi-fasciste. Facciamo, però, anche memoria di Manfredi di Svevia. Perché solo così ci sarà luce vera nel nostro futuro!
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