Mastini: buoni interpreti in serie B. Killer Bees più che pungenti nel loro campionato e, per il resto, i più giovani – mescolati al Como – che cercano progressi nelle loro giovani speranze. L’hockey varesino, insomma, si difende con apprezzabile impegno che deve pur sempre gettare uno sguardo sulla situazione economica.
Questo l’hockey di oggi. Quello che nel passato a Varese non ebbe mai una tradizione. Non esisteva il palazzotto in via Albani né in alcuna altra parte della città. Il campo di pattinaggio era ridotto a uno spazio scarso e all’aperto, posto proprio di fronte allo stadio calcistico. Si trattava, in sostanza, di quell’appezzamento di terreno, dal fondo in cemento, che costeggiava l’allora caffè poi trasformatosi in pizzeria. Un luogo appositamente d’inverno reso colmo di acqua facilitata nel trasformarsi in ghiaccio dal trovarsi in uno dei punti più esposti al freddo tanto da essersi conquistato il nome di ghiacciaia di Varese. Ottimo, dunque, per il pattinaggio per essere – appunto – sotto il tiro dell’aria gelida che scendeva da Sacro Monte e Campo dei Fiori. Quanto di più indicato per ovvia soddisfazione dei non pochi pattinatori e con antitetico parere dei domenicali frequentatori dello studio calcistico più o meno surgelati.
Dunque su quello spazio si pattinava solo sperando di non essere interrotti dai rituali allarmi aerei. Non si praticò, però, mai l’hockey non esistendo, assolutamente, una squadra varesina. Accadde che nell’inverno del 1943, i più qualificati frequentatori del campetto decisero di formare una squadra per affrontare i già da tempo collaudati diavoli rossoneri milanesi: esperti, questi ultimi; al primo approccio (tra l’altro rimasto per quel tempo l’unico) i varesini.
Fu allora che si tenne a Varese la prima e – si diceva – ultima partita di hockey. Su quel campo. Era, appunto, l’inverno del 1943 quando le vicende belliche volgevano già al peggio per gli eserciti italiano e tedesco.
A fare parte della compagine varesina furono chiamati – appunto – alcuni tra i migliori frequentatori del campetto (che, peraltro, non avevano mai impugnato un bastone da hockey) così che i milanesi non faticarono ad avvantaggiarsi nel punteggio e nel silenzio più assoluto degli spettatori locali. Il silenzio non era dovuto al rispetto (o al dispetto) per lo strapotere degli ospiti ma alla stranezza di uno spettacolo sconosciuto alla gran parte dei presenti. La quiete fu interrotta da un urlo, isolato ma potente, di uno spettatore varesino che accompagnò un’entrata fallosa di un milanese con un deciso “macellaio”. Ne derivò una sonora risata di due ufficiali tedeschi che seguivano il match e che, evidentemente, masticavano l’italiano.
Umorismo all’esterno ma bagarre sul campo e ai bordi. Bastò, infatti, quell’intervento per scatenare il tifo locale diventato calorosissimo ed efficace con ripercussioni sul clima di un incontro che da “glaciale” divenne di fuoco anche tra i giocatori.
Vinsero, ovviamente, i diavoli ma con le pene, appunto, dell’inferno.
E l’epoca dell’hockey su ghiaccio da quella situazione pur occasionale e con discreto ritardo rispetto a quell’inverno 1943 ebbe ad avere inizio.
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