Se la deputata vicentina del PD Alessandra Moretti ha avuto l’arditezza di paragonare Pierluigi Bersani a Cary Grant – si veda la rubrica Top e Flop dell’Espresso dell’altra settimana: naturalmente la signora Moretti è nel Flop – significa almeno una cosa, al di là della sparata, che il grande attore hollywoodiano, benché scomparso da circa trent’anni e più anziano di Bersani di mezzo secolo, sopravvive come mito anche tra i molto giovani e rappresenta un esempio nell’eterno immaginario creato dal cinema.
Alto – ma di più dell’ex leader del PD –, atletico, elegante, con una testa sempre ben pettinata tipo modello di barbiere, viso simpatico con la caratteristica fenditura nel mento e interprete quasi sempre di personaggi provvisti di una buona dose di sense of humour, se restiamo nel mondo del grande schermo e limitandoci all’aspetto fisico, magari l’avremmo paragonato a un George Clooney. Sempreché sia lecito avvicinare un noto attore del passato a uno contemporaneo.
L’impeccabile Cary Grant ha rappresentato uno stereotipo. Lo scrittore Jan Fleming disse di essersi ispirato a lui nel tracciare la figura dell’agente inglese 007, James Bond, poi rappresentato – almeno nei primi e più famosi film – dallo scozzese Sean Connery. E non a caso, oltre tutto, perché Cary Grant – star hollywoodiana fin dagli anni Trenta del Novecento – era britannico di origini, essendo nato a Bristol il 18 gennaio 1904. Negli Usa, da funambolo e cantante di music-hall, era approdato molto giovane. Addirittura più giovane di età – non aveva ancora vent’anni – di altri due britannici che hanno fatto grande la storia del cinema: Charlie Chaplin (1899-1977), che allo stesso modo vi era arrivato insieme con una compagnia circense, e Alfred Hitchcock (1899-1980), che si corroborò prima in Inghilterra, nel muto, e poi, a quarant’anni, scelse la mecca hollywoodiana. Cary, tra l’altro, fu uno degli attori prediletti di “Hitch” e con lui lavorò in quattro film memorabili: Sospetto (Suspicion, 1941), Notorious-L’amante perduta (Notorious, 1946), Caccia al ladro (To catch a thief, 1955), insieme con la bellissima Grace Kelly, e Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959). Di quest’ultimo film, in particolare sono rimaste indelebili nella memoria alcune scene: quella in cui il protagonista Cary-Roger O. Thornhill corre per sfuggire all’ “aggressione” di un aereo da turismo e l’inseguimento finale, dove gli attori sono aggrappati ai volti giganteschi dei presidenti Usa sul monte Rushmore del Sud Dakota (ma le statue erano state interamente rifatte negli studi). E c’è, in proposito, una curiosa battuta di Hitchcock, che ovviamente non difettava di spirito… inglese: “Mi sarebbe piaciuto fare entrare Cary nella grossa narice del presidente Lincoln e farlo starnutire…”.
Per scelta personale piace ricordare uno degli ultimi film che Cary Grant girò (il terzultimo per l’esattezza prima del ritiro: l’ultimo fu Cammina, non correre-Walk, don’t run, di Charles Walter, del 1966), ovvero Sciarada (Charade, di Stanley Donen), da noi, a Varese, proiettato per la prima volta nel periodo natalizio del 1963 nella sala neoclassica (allora affollata e fumosa) del Lyceum. Qui Cary si presenta come Peter Joshua (ma qual è il suo vero nome?) che si offre di aiutare una bella e affascinante vedova (Audrey Hepburn) e di proteggerla dalle insidie e dai tranelli di altri misteriosi personaggi (interpretati da Walter Matthau, James Coburn, George Kennedy). Il film – magistralmente sottolineato dalla musica di Henry Mancini – si conclude in gloria con le nozze tra Joshua, alias signor Dyle, alias signor Canfield, e in realtà Brian Cruijshank, funzionario del governo americano, e la bella signora. Sciarada ha avuto un remake agli inizi del primo decennio del 2000, ma non con lo stesso successo del film di Grant e della Hepburn. E c’era da aspettarselo.
Anche Cary Grant, in vita e dopo la scomparsa, avvenuta nel 1986, fu oggetto del gossip, hollywoodiano e no. E come era accaduto per Burt Lancaster si sostenne che l’elegante e simpatico attore fosse gay. A propalare la notizia – pare – era stato il regista George Cukor (1899-1983), che pure aveva avuto Grant come suo privilegiato interprete: Il Diavolo è femmina (1936), Incantesimo (1938), Scandalo a Filadelfia (1940). Si disse che l’amico del cuore di Cary fosse l’attore Randolph Scott (1898-1987), protagonista e apprezzatisssimo interprete di più cento film, nella stragrande maggioranza western.
Cary e Randolph erano molto amici e si afferma anche che agli inizi della loro carriera abitarono nello stesso appartamentino, non si sa se per risparmiare o altro. Ma Cary Grant – al secolo più pomposamente Archibald Alexander Leach – si sposò cinque volte: sue mogli furono le attrici Virginia Cherrill, Betsy Drake, Dyan Cannon, Barbara Harris (l’ultima) e la miliardaria Barbara Hutton. Dalla Cannon ebbe una figlia, Jennifer, anche lei attrice. Proprio a difesa del padre, a questo proposito, si levò in un certo senso la voce di Jennifer: “Non posso incolpare gli uomini per averlo voluto e non mi stupirei se papà flirtasse leggermente di ritorno…”, scrisse. “In qualche modo a papà piaceva essere chiamato gay. Diceva che faceva venire voglia alle donne di dimostrare il contrario”. Simpatico furbacchione, il nostro Cary. E anche uno degli artisti più ricchi di Hollywood per accortezza e fortuna.
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