Il primo elenco degli ebrei residenti a Varese e in provincia fu trasmesso al quartier generale del comando della Guardia di frontiera tedesco di Villa Concordia-Zanoletti in via Solferino 6, l’unità incaricata di controllare le frontiere italo-svizzere da Antonio Solinas, questore di Varese, il 25 ottobre 1943. Settant’anni fa. Il rapporto indirizzato personalmente “Al signor capitano Werner Knop, comandante il Nucleo Guardia Doganale, Varese” è registrato dal “BezirksZoll Kommissar GI” il giorno successivo. Conteneva 76 nominativi di “ebrei italiani”, 11 nominativi di “ebrei stranieri”, 5 nominativi di “ebrei apolidi” oltre a 61 nominativi di ebrei residenti sul territorio provinciale. Si trattava in generale di interi nuclei familiari, alcuni residenti nel capoluogo da diversi anni, altri giunti nel Varesotto dopo il 1938 e il varo delle leggi razziali, anticipando l’ondata di coloro che, dopo l’8 settembre (alcune migliaia) si riversarono sulla fascia varesina del confine italo-svizzero in attesa di un passaggio.
L’elenco faceva parte del censimento del ’38 che il governo Badoglio aveva lasciato a disposizione delle Prefetture e delle Questure fasciste senza preoccuparsi di eliminarlo, favorendo in quel modo l’azione degli occupanti. Non era mancata la collaborazione piena di podestà, amministratori pubblici e privati di beni ebraici, tutti assieme proni agli ordini del Reich, responsabili della Shoah italiana a pieno titolo.
Occorre dire che quel fatidico 25 ottobre 1943 giunse prima dell’Ordine di polizia n. 5 del 30 novembre che prevedeva il sequestro dei beni mobili e immobili degli ebrei e il concentramento di uomini, donne, bambini in campi di detenzione provinciali (a Varese si era pensato alla colonia infantile di Marzio-Boarezzo e a Busto Arsizio) e fortunatamente dopo le prime fughe oltre confine.
Il questore Solinas – e ciò servirà a salvarlo dalla fucilazione il 25 aprile 1945 addirittura con un plauso del CLN che aveva sottolineato la preziosa collaborazione al momento della Liberazione – si era mosso infatti molto lentamente, respingendo nel limite del possibile le insistenze del Comando germanico. La serie dei solleciti tedeschi era iniziata al Palazzo littorio il 15 ottobre. Per primo si era mosso il Comando territoriale di Bergamo da cui Varese dipendeva (PlatzKommandantur 1016, Collegio Macchi, via Pasubio 10) con un forte “invito” ai podestà di far compilare e trasmettere alla Questura “un elenco con tutti gli ebrei residenti in Comune”. Il tenente colonnello Hans Von Detten onde evitare equivoci di sorta si era preoccupato di precisare che ebreo “è colui che discende da almeno tre generazioni da genitori ebrei”.
Gli ebrei bene integrati nel tessuto nazionale, in gran parte fascisti, combattenti, decorati, professionisti, amministratori pubblici, avevano tardato a cogliere l’allarme che stava montando. Si erano sentiti violati più che dai provvedimenti materiali da quelli morali, attaccati nella loro “italianità”. Il “caso” dell’ingegner Ugo Russi, vicedirettore della Varesina Imprese Elettriche, ebreo, con moglie ariana e cattolica, dieci figli a carico, si era chiesto fino all’ultimo che cosa avesse mai combinato di deplorevole per essere perseguito e si era deciso a tentare la strada della Svizzera solo quando il fratello Arrigo, giunto da Trieste, gli aveva aperto gli occhi su quanto stava accadendo.
Interrogato l’8 maggio 1945 dal giudice Garibaldi Porrello, delegato dalla Commissione provinciale di giustizia, Solinas si era difeso sostenendo di aver fatto tutto quanto gli era stato possibile per rinviare la consegna ma che di fronte agli ultimatum di fine ottobre della Gendarmeria tedesca di Milano aveva dovuto arrendersi. Il Questore aveva aggiunto che nel caso si fosse rifiutato i tedeschi l’avrebbero arrestato prendendo con la forza la documentazione. Che Solinas si fosse attivato per sfuggire alla morsa dell’occupante era emerso dal fatto che, in compagnia del prefetto di Varese Pietro Giacone, si era recato a Milano all’Hotel Regina, quartier generale delle SS di Theodor Saevecke nel tentativo di respingere le sollecitazioni, proponendo l’applicazione più mite delle leggi italiane ma l’incontro non aveva dato risultati.
“Tirai ancora alle lunghe – aveva dichiarato Solinas al giudice Porrello –, quando, a fine ottobre, si presentarono in Questura alcuni militari tedeschi di Milano, armati, per ritirare di forza gli elenchi. Di fronte alla situazione che si era creata e poiché ormai tutti o quasi gli ebrei si erano messi in salvo, firmato l’elenco lo consegnai”.
Gli ebrei irreperibili, secondo il rapporto del capitano dei carabinieri Guido Di Prisco, erano 144 su 153 registrati. Tredici di essi risiedevano ad Azzate, altri 13 a Tradate, Abbiate e Venegono, uno a Laveno, 21 a Porto Ceresio, 5 a Gavirate, 37 a Varese, 8 ad Arcisate, 6 a Masnago, 2 a Malnate.
L’elenco del 25 ottobre 1943 non restò un fatto isolato perché il 10 novembre il Capo della Provincia (l’ex Prefetto nella RSI) trasmise al “Gruppo Amministrativo Militare” di Bergamo un secondo elenco, seguito il 6 dicembre da un terzo questa volta fatto avere al Comando Militare di viale Silvestro Sanvito 20, nella villa sequestrata all’ebreo ingegner Luzzatti, presidente della Società Elettrica Varesina. I tedeschi non si erano accontentati perché il 3 e il 16 febbraio del ’44 il colonnello Karl Vornhem e il colonnello Herbert Molsen, il primo comandante della Piazza di Varese e il secondo di Bergamo, avevano invitato la Prefettura, sollecitata senza esito il 31 gennaio, a voler consegnare con un urgenza “gli elenchi complementari degli ebrei che, secondo la legge italiana, non erano registrati come ebrei”.
Era stato questa volta il neo Capo della Provincia Mario Bassi a tranquillizzare l’alleato fornendo un ultimo elenco aggiornato con anche le generalità delle 48 famiglie, prima escluse, formate dai cosiddetti “ebrei misti” (coloro che erano frutto di matrimoni fra ebrei ed ariani e i loro figli) che nel successivo maggio sarebbero stati rastrellati e deportati ad Auschwitz. Gente che non temeva nulla ma che era stata colpita dalla ferocia dei repubblichini più “realisti” dei loro stessi padroni. Andarono al massacro uomini e donne inermi come il maresciallo dell’esercito Leone Tapiero, fedele servitore dello Stato; la professoressa Clara Pirani Cardosi, moglie del preside del Ginnasio di Gallarate; la signora Ada Provenzali Bianchi, moglie del direttore del Calzaturificio di Varese; l’industriale di Busto Arsizio Elio Nissim (che prima di superare il Brennero si gettò dal treno salvandosi), l’agente di assicurazione Rogers Nathan.
Il 26 febbraio 1944 dalla solerte Questura di Varese era partito l’ultimo elenco con 210 nomi. La Shoah, tutta italiana (e varesina), si era compiuta.
Nelle foto: autunno 1943, un gruppo di ebrei catturati nei pressi di Dumenza mentre tentano di varcare il confine (da Franco Giannantoni, “La notte di Salò (1943-1945)”, Varese, Arterigere, 2001)
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