Lonate Pozzolo, pochi giorni fa, diventa luogo crudele. Muore Steven, sei anni, ucciso in un incidente stradale. Pochi giorni dopo muore il fratellino Nicolas, nove anni: stava a bordo della stessa auto. Erano da due anni senza la mamma, rapita dalla malattia. Resta da solo il papà Alessandro, che guidava il veicolo. Vi resta nel dolore incomprensibile, nella disperazione che morde, nell’irrealismo della realtà. Protagonista e vittima d’una storia straordinaria e insieme ordinaria: la storia del caso (dell’accidente, dell’imprevedibile) che appartiene alla consuetudine, ma al quale la consuetudine non fa caso (lo esorcizza, lo rimuove). Perché si pensa – siamo portati tutti a pensarlo – che il rovescio del destino sia qualcosa di lontano e immaginifico, che non ci toccherà mai in concreto, e che l’esistenza si distribuisce su due piani: il piano dove abitiamo noi, il piano dove abita il resto del mondo. Al secondo crediamo di poter decidere se e quando rendere visita, sicuri che al primo non accederà nessuno di sgradito. Invece non va così. C’è un incontrollabile andirivieni tra un piano e l’altro, e nel condominio della vita dobbiamo prendere atto d’essere inquilini, non proprietari.
Questo esprime la razionalità quando succede l’irreparabile. Richiama il fragile equilibrio cui ci consegniamo fin dalle origini, e quasi sempre dimentichiamo se non allertati da avverse circostanze. Ricordarlo a margine dell’orribile cronaca, non rappresenta un esercizio inutilmente banale, bensì il modo per dire ad Alessandro che non si trova da solo, nella sciagurata svolta (quante drammatiche svolte) della sua avventura d’uomo. La compagnia è grande, e vi partecipiamo tutti, consapevoli del precario trapezio che regge l’acrobazia esistenziale; certi d’essere ascoltati nella testimonianza di compassione; sicuri che offrire la pietà non costituisca un gesto meramente formale, ma una sostanziale condivisione di pena.
Una parabola orientale racconta della donna che perde il figlio, smarrisce la voglia di vivere e si reca da un maestro di virtù per trovare requie al singhiozzare dell’anima. Lui l’ascolta con pazienza, le carezza il capo e sussurra: “Io non posso asciugare le tue lacrime, posso solo insegnarti a renderle sante”.
Un’esplicita disillusione sull’eventualità di trovare parole che risultino consolatorie. Però la convinta certezza che vi riescano, con il trascorrere del tempo, i fatti. Quali fatti? La vicinanza generosa, lo slancio di comunione, la ricerca d’un praticabile sollievo: mettere insieme le lacrime, fisiche e simboliche, e santificare l’orizzonte. Dargli una prospettiva alta. Intravederla per merito dell’affezione collettiva.
Facciamo – e facciamo bene a farli – molti minuti di silenzio per accadimenti luttuosi. Facciamone uno in più, ciascuno di noi e dappertutto, per la partenza di Nicolas e Steven, andati a raggiungere la mamma dove solo loro sanno. Proviamo a trovare il poco tempo necessario a fermare la solita gran fretta: sostiamo, riflettiamo, magari preghiamo, ciascuno secondo il suo personale modo, religioso o laico che sia. Non riusciremo a spiegare le ragioni del mistero, ma non ci sentiremo in torto per aver rinunziato a riconoscerne l’esistenza. È un semplice gesto di umiltà, di cui papà Alessandro, pur non vedendone materiale traccia, coglierà l’eco spirituale. E gliene sarà medicato il cuore, pur se nulla è in grado di guarire per sempre la sua sofferenza.
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