Papa Francesco, rispondendo a una domanda postagli da Antonio Spadaro nella ormai più che famosa intervista apparsa su La Civiltà Cattolica, su quali fossero gli scrittori da lui preferiti, cita Alessandro Manzoni “che gli ha dato tanto”. Il romanzo I Promessi Sposi è la sua lettura preferita. Lo ha letto tre volte e lo ha sul tavolo per una nuova lettura. Soggiunge il Pontefice: “Mia nonna quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: ‘Quel ramo del Lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…’ “.
Ce ne sarebbe già da essere orgogliosi, noi lombardi. Il Santo Padre ha mandato a memoria i nostri cieli, le nostre acque, i nostri monti, le nostre brughiere e i nostri coltivi sin da bambino. E dorme tenendo accanto a sé la descrizione di tanti luoghi della nostra terra, quante sono le peregrinazioni per “lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina” dei protagonisti del capolavoro manzoniano. Questa vicinanza di Francesco a noi non è solo di maniera ma vanta salde radici. Manzoni è per certo uno dei protagonisti di quella che Dante Isella ha definito “la cultura letteraria lombarda”. E le cui caratteristiche sono così riassunte dal filologo nel suo “I Lombardi in rivolta: “realismo e moralità”. Realismo e moralità propri dei nostri letterati maggiori nel corso dei tempi, impiegati, professionisti, artigiani, commercianti e industriali, borghesi dunque e ambrosianamente e devotamente pii.
La storia personale di Francesco si iscrive in questo ceto. I caratteri della sua formazione sono quelli di una famiglia borghese di emigrati da un’area geografica che sta nella estensione medievale della Lombardia, appena fuori dai suoi confini attuali. Ma al di là delle questioni geografiche e di quelle della formazione personale, che pur tanto hanno contato nel definirlo come persona, l’influenza o la empatia di Francesco con la cultura di Manzoni e dunque con la nostra società, ben si trova nella dimensione civile della sua esperienza religiosa, che ben traspare nel testo della bella intervista di Spadaro. Sta nel suo sentire che la prima regola di un gesuita è quella di fare le piccole cose di ogni giorno con cuore grande e aperto a Dio e agli uomini, nel vedere l’immagine della Chiesa nel popolo fedele a Dio e non nella gerarchia, avendo cura di rifuggire ogni populismo, nello stare dalla parte della “classe media della santità”, che si esprime nella quotidianità dei gesti di chi pazientemente, giorno dopo giorno, affronta le fatiche della vita, nella necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto in cui opera, nel suo vivere in frontiera e non in qualche algido laboratorio d’idee.
Come non leggere in queste parole il realismo e la moralità dei Lombardi in rivolta? Di un certo modo d’essere della Chiesa ambrosiana in perenne rapporto di scambio con la società civile? Una società civile la cui anima è sempre stata incarnata da persone come i famigliari di Francesco, il papà, la mamma, la tanto amata nonna Rosa, che esprimono la santità di certa classe media. Persone manzoniane, vilipese dalle mode ideologiche populiste, dalla politica che tende a espropriarne ogni dignità, dalla burocrazia che le paralizza e le terrorizza, dal consumismo che ne liquida i valori, ma che popolano le nostre città e i nostri paesi, praticando giorno dopo giorno con pazienza costante la razionalità che trova concreta espressione nell’esperienza del lavoro e la spiritualità che si manifesta anch’essa nelle cose, nelle opere di carità. Silenziosi, oscuri e oscurati lombardi in rivolta cui Francesco dà, da conterraneo, rinnovata dignità e una voce di speranza.
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