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Spettacoli

PICCOLI CRIMINALI CRESCONO

MARGHERITA GIROMINI - 18/10/2013

Dal film “Educazione Siberiana”

Per una vita ho sentito i pedagogisti affermare, e quante volte l’ho ribadito io stessa, che il senso dell’educare sta nel “tirar fuori”, dal latino “educere”, far venire alla luce ciò che è già dentro di noi in quanto essenza della nostra umanità. Il primo a teorizzare questo concetto di educazione fu Socrate che dei suoi discepoli si riteneva “solo” la levatrice, cioè colui che li aiutava a nascere alla consapevolezza della natura umana.

Non sono mancati, nell’esperienza di tutti, racconti di crescita, letti o visti al cinema. Con educatori eccezionali, capaci di accendere nei giovani la scintilla della conoscenza. Da John Keating, il professore dell’Attimo Fuggente, alla insuperabile Anne Sullivan, nota sugli schermi e a teatro, interpretata da Mariangela Melato, “Anna dei miracoli”, maestra di Ellen Keller, la bambina sordomuta e cieca che dalla sua educatrice fu aperta alla comunicazione con il mondo.

Nel Novecento, definito dagli scienziati “il secolo dei bambini”, la pedagogia si è affannata a chiarire le differenze tra educare, insegnare, istruire, formare, cercando i punti di contatto tra i diversi concetti. Se chi educa: genitori, insegnanti, animatori dell’oratorio, allenatori sportivi, insegna anche. Se chi forma e istruisce, sta educando, più o meno consapevolmente.

Sappiamo per esperienza che nel processo di crescita di un ragazzo si intrecciano istruzione, formazione ed educazione. Per questo sulle spalle di ciascun adulto viene caricata la responsabilità della crescita delle nuove generazioni: perché nessuno può educare senza insegnare (che, a proposito di etimologia sta per “lasciare un segno”), e chiunque insegni, mette in moto un processo educativo più ampio degli apprendimenti che vuole trasmettere. Ogni comunità, ogni società, ogni istituzione che si occupi di crescita, è chiamata a rispondere alla domanda: che figlio, quale uomo, o quale donna, vorrei vedere emergere al termine di questo processo?

Il film di Salvatores, “Educazione siberiana”, mi ha colpita nel profondo perché ha messo in scena la storia di bambini e ragazzi che ricevono un’educazione criminale; perché mostra una comunità di uomini che ha scelto i valori per i propri uomini di domani: essi dovranno sapere rubare, accoltellare, lottare, subire dure prove, come i loro padri e i loro nonni.

Ma che razza di luogo è questo, mi sono chiesta durante la visione, dove i “saggi” trasmettono ai giovani, con segno indelebile, pratiche delinquenziali con la stessa naturalezza con cui, a scuola da noi, un docente si cimenterebbe in un percorso sulla legalità? Possiamo definire educatori persone che addestrano a quelli che noi riteniamo invece disvalori: maneggiare un coltello, tirare bombe alla polizia, ammazzare qualcuno?

Salvatores ci racconta l’iniziazione di alcuni ragazzi siberiani alla carriera di “onesti criminali”. La storia, in parte autobiografica, è tratta dal libro del poco amato in patria Nicolai Lilin (libro dal titolo omonimo, edizioni Einaudi), scrittore che vive in Italia da alcuni anni. Nato e cresciuto, appunto, nelle gelide steppe di un posto dal nome improbabile, Transnistria. Un lembo di terra sul confine moldavo- russo, che nel 1990, dopo la caduta del Muro, rivendicò senza esito l’indipendenza; e divenuta, negli anni della transizione dal comunismo al capitalismo, un crocevia di traffici internazionali. Qui crescono i giovani Kolima e Gagarin, amici per la pelle e amici nel sangue. Li seguiamo mentre vengono iniziati alle rapine e alla condivisione della refurtiva, muniti di picca e amabilmente guidati da un nonno affettuoso quanto coerente e rigoroso nella trasmissione del codice d’onore della comunità. Un codice fatto di valori di morte, ma accompagnati da virtù come il coraggio, la coerenza, l’amicizia, la condivisione sociale. Si ruba per sostenere il gruppo ma non per arricchirsi, si rispettano gli anziani e gli handicappati, creature “volute da Dio”; si può finire in carcere dove si impara a sopportare le peggiori angherie. Per appartenere al gruppo ci si sottopone anche a dolorosi tatuaggi. E si condanna a sicura morte lo stupratore, chiunque egli sia, un membro della comunità o un amico fraterno. Scrive Lilin: “Eravamo abituati a parlare di galera come altri ragazzini parlano del servizio militare o di cosa faranno da grandi”.

In questa favola nera di Salvatores, che all’infanzia ha dedicato anche il film “Io non ho paura”, riviviamo l’eterna vicenda dello scambio tra generazioni, del passaggio di consegne tra gli anziani e i giovani.

Alla fine il film ci dirà che questa comunità ai confini del mondo non riuscirà a mantenere inalterati i propri valori ancora per molto. In anni di rapida occidentalizzazione e di globalizzazione il mondo cambia, anche in Transnistria. E in futuro una vera educazione siberiana non sarà più possibile. Purtroppo o per fortuna?

“Educazione siberiana” è un film duro, a tratti insopportabile, però capace di attingere pensieri dal profondo e di buttarci in faccia, con malgarbo, alcuni inquietanti interrogativi sui temi dell’educazione. E noi, in Occidente, quali nuove generazioni stiamo educando, con quali mezzi e per raggiungere quali finalità?

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