“Suonare il piano è facile. Basta toccare il tasto giusto al momento giusto e lo strumento suona da solo” (Johann Sebastian Bach).
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Il soggiorno è dominato da un enorme cactus saguaro e da uno Steinway’s a coda nero e imponente come un’astronave da guerra. Il vecchio Arthur si alza a fatica dalla poltrona di cuoio ed esibisce uno sbadiglio leonino. Ha dormito poco e male e si lamenta perché il jet lag gli lessa il cervello. È tornato il giorno prima da Los Angeles, dove ha lavorato alla colonna sonora di un film. Dice: “Faccio un po’ di rumore, magari mi sveglio”.
La dismisura tra gli ottantotto tasti e le dieci dita è evidente e io, lì in piedi, osservo il movimento delle grandi mani dal dorso irsuto, l’acrobatico lavoro delle falangi, il tocco di ogni singolo polpastrello che rintraccia la nota con smagliante infallibilità e la salda alle altre dopo averla isolata per una frazione di secondo, mentre i piedi lavorano sui pedali di ottone puntuali e risoluti come quelli di un pilota di rally. Arthur – un sorrisino a labbra strette e i centodieci chili che appiattiscono l’imbottitura capitonné della panchetta professionale – si diverte ad annodare insieme ritmi e stili diversi, briose scansioni di ragtime, liquide pennellate alla Erroll Garner, fraseggi aspri e sintetici di hard bop. Con sollievo sento che l’insopportabile, avvilente sodalizio fra l’ammirazione e l’invidia si sta disgregando.
Quando torniamo a sederci mi resta dentro l’appagante stupore che suscita la musica, l’antica “arte del suono organizzato”, che secondo Platone è in stretto rapporto con i pianeti e gli stati d’animo. Mi sembra un tema interessante e sto per proporlo al vecchio Arthur, che però mi prende in contropiede. “Ma com’è possibile – dice in tono dolente – che quel Berlusconi non voglia togliersi di mezzo?”.
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“Basta, non posso ascoltare troppo Wagner: sento già l’impulso a occupare la Polonia” – (Woody Allen a Diane Keaton, Misterioso omicidio a Manhattan).
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