Prima del rastrellamento di settant’anni fa, il 16 ottobre del ’43, gli ebrei romani non furono mai disturbati. Dall’8 al 25 settembre sembrava che ai nazisti, padroni della Capitale, la questione semita non interessasse, tanto che nell’animo degli ebrei cominciò a farsi strada la speranza che quello che era avvenuto negli altri Paesi del Reich e di cui si era cominciato ad avvertire solo particolari sarebbe stato loro risparmiato. Un’illusione che si iniziò a sgretolare il 26 settembre, d’improvviso, quando il presidente dell’Unione Almansi e quello della Comunità Foà furono convocati presso l’Ambasciata tedesca dal comandante della Gestapo, il tenente colonnello Herbert Kappler che oltre a ribadire loro lo “status” di “nemici”, promise che non avrebbero subito alcuna conseguenza se entro trentasei ore avessero consegnato cinquanta chilogrammi di oro. “Se lo verserete – dichiarò Kappler – non vi sarà fatto del male. In caso diverso duecento fra di voi saranno presi e deportati in ferrovia alla frontiera russa o saranno altrimenti resi innocui”.
Un’unica concessione: al posto dell’oro, se non si fosse trovato, erano ammessi sterline e dollari ma non lire italiane, carta straccia che il Reich poteva “battere” quando e come avrebbe voluto. Nessuno, né la polizia né la Demografia e Razza italiane, a cui i due esponenti ebrei avevano chiesto aiuto, mossero un dito. L’oro fu reperito dopo una caccia sfrenata casa per casa, addirittura ottanta chilogrammi (trenta furono poi nascosti dalla Comunità) e il 26 settembre portato a via Tasso in piccoli contenitori. Dopo aver tentato di barare sul peso, sostenendo che l’oro pesasse solo quarantacinque chilogrammi, i tedeschi incamerarono il bottino senza fiatare.
L’operazione non era terminata perché la mattina del 29 settembre scattò il secondo livello del piano antisemita: venne perquisita la sede della Comunità e fu razziato denaro per oltre due milioni di lire italiane che evidentemente serviva ancora e casse di documenti. L’operazione si prolungò il 13 ottobre contro gli ebrei “più ricchi” e contro la Biblioteca della Comunità che fu spazzata via di tutti i preziosi volumi che aveva. Un valore immenso. Venne rastrellato anche il Portico d’Ottavia, un edificio antico, di impianto medioevale, dove viveva la comunità più povera, straccivendoli, ambulanti, sarti, falegnami, operai.
La terza fase, la più cruenta, ebbe il suo culmine il 16 ottobre, un sabato. La retata non escluse le donne e i bambini. Vennero arrestati e deportati ad Auschwitz milleventidue ebrei di cui solo diciassette sarebbero tornati vivi a Roma (fra cui una sola donna, Settimia Spizzichino) con la morte stampata nel cuore, testimoni di un dramma che qualche folle, anche italiano, ancora oggi osa sostenere non sia mai avvenuto.
L’operazione era stata affidata al boia Kappler e a tre speciali compagnie di polizia giunte a Roma per l’occasione alle dirette dipendenze del Gauleiter Theodor Dannecker. La retata non risparmiò nessuno. Chi era nel ghetto fu fermato. Resta ancora oggi inspiegabile come nessun ebreo avesse lasciato casa pur sapendo della minaccia nazista. Una valutazione errata della situazione o il legame insuperabile con la casa, gli affetti, il territorio? Come, resta un mistero, la presunzione che i soldati di Hitler non avrebbero toccato donne e bambini. La realtà è che non ci furono distinzioni perché furono catturati, sulla base degli elenchi razziati in precedenza, donne, bimbi, donne incinte, malati, moribondi. “Oggi – aveva scritto Kappler al comandante generale Karl Wolff – è stata iniziata e conclusa l’azione anti-giudaica (…). Nel corso dell’azione che durò dalle 5,30 fino alle 14 vennero arrestati in abitazioni giudee milleduecentocinquantanove individui, accompagnati poi nel Centro di raccolta della Scuola Militare. Dopo la liberazione dei meticci e degli stranieri compreso un cittadino vaticano, delle famiglie di matrimonio misto, rimasero millesette giudei. Il trasporto è fissato per lunedì 18 ottobre, ore 9”.
Nei giorni che seguirono la razzia continuò. Molti ebrei romani, venuti a sapere della grande operazione, si misero al sicuro, abbandonando la loro abitazione. Altri, incapaci di reggere alla realtà, si tolsero la vita come il professor Jona che non volle consegnare ai tedeschi gli elenchi dei compagni; altri ancora furono stroncati da malore.
Se Roma conobbe in ottobre la grande tragedia, il Nord, lungo la incantevole riva piemontese del lago Maggiore, fra Arona, Baveno, Meina, Stresa, dove soggiornarono nel tempo, fra i tanti, Dickens, Flaubert, Stendhal, Paul Valery, pagò con la morte feroce di cinquantaquattro ebrei il prezzo alla follia di un manipolo di assassini della Leibstandarte “Adolf Hitler”, una Divisione corazzata, formata, scrisse Marco Nozza nel suo fondamentale “Hotel Meina”, “da soldati politici, il meglio della razza tedesca”. Massacrati come animali e gettati nel lago con corde di filo di ferro al collo fissate a grosse pietre perché i corpi scomparissero per sempre. Vennero invece a galla e la popolazione, terrorizzata, incapace di una reazione, vide. Vide anche dalla piazzetta sottostante, costernata e impotente, i ragazzi ebrei, originari di Salonicco, che da un terrazzo dell’Hotel Meina, dove erano reclusi, lanciavano le loro grida d’auto. Era il 23 settembre 1943. La caccia all’ebreo era cominciata con questa mattanza. I fascisti di Salò, prefetti, questori, commissari prefettizi, podestà, amministratori ariani di beni ebraici (anche a Varese), tranne rarissime eccezioni (Calogero Marrone, ad esempio), si adoperarono perché i tedeschi completassero il loro programma.
You must be logged in to post a comment Login