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Libri

I FUGGIASCHI DI CALDÈ

SERGIO REDAELLI - 11/10/2013

Una famiglia straordinaria e contraddittoria, come la follia della guerra può ridurre a essere perfino fratelli e parenti di sangue: Giampiero fu fucilato in montagna come partigiano, Giuseppe e Santo rischiarono la vita al confine per portare in salvo gli ebrei perseguitati dalle leggi razziali e Dionigi, arruolato nell’esercito della RSI per evitare ritorsioni contro i vecchi genitori, prese parte alla campagna di Russia. Sono i quattro fratelli cui è dedicato il libro di Alberto Boldrini “La stazione di Caldè – I fratelli Albertoli e altri eroi”, curato dal gruppo alpini di Castelveccana (Edizioni Marwan, €18, invendita nelle edicole della zona) che rievoca pagine drammatiche della storia luinese fra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra.

Furono i mesi terribili segnati dai rastrellamenti della milizia a caccia dei giovani renitenti alla leva, dalla resistenza partigiana, dalle fucilazioni e dall’oscuro lavoro della rete clandestina che aiutava i ricercati a riparare in Svizzera. Ai quattro fratelli si aggiunge un altro Albertoli, Giacomo, non imparentato con gli altri, aggregato alla formazione partigiana Lazzarini e ammazzato dai nazifascisti alla Gera di Voldomino il 7 ottobre 1944. Faceva il portiere nella squadra di calcio di Ronchiano e aveva solo diciannove anni. Fu decorato al valore militare con la medaglia di bronzo alla memoria nel 1964. Gli alpini di Castelveccana gli hanno intitolato la propria sede.

Caldè, una stazioncina defilata sulla linea ferroviaria Milano-Laveno-Luino, era il luogo segreto dove confluivano ebrei e ricercati e da lì fatti sparire oltre confine. I protagonisti degli espatri erano ex prigionieri alleati evasi dopo l’armistizio, perseguitati per motivi razziali o politici, militari e giovani di leva, renitenti ai bandi e partigiani di formazioni dissolte. A gestire il traffico notturno lungo i sentieri boschivi da Nasca a Ticinallo, da Bedero a Voldomino o di giorno, in bicicletta, facendola in barba ai tedeschi, erano coraggiosi cittadini, le loro mogli e spesso i sacerdoti come don Piero Folli, il parroco antifascista in contatto con l’arcivescovo Boetto di Genova, con il cardinale Schuster a Milano, con il porporato Della Costa a Firenze e altri prelati.

In pochi mesi transitarono da Caldè duecento persone in fuga. Il passaggio della frontiera avveniva attraverso il monte Lema per Astano in Svizzera e da Voldomino, più raramente nei punti di confine intermedi o via lago a Colmegna e Zenna, con l’aiuto di compiacenti barcaioli. Don Folli, generoso e pragmatico, si serviva per l’ultimo tratto di strada di guide molto particolari, contrabbandieri e spalloni che conoscevano ogni metro della linea di confine, ogni cunicolo e tombino e che ricevevano in cambio un compenso in denaro. A missione compiuta si facevano firmare una ricevuta da coloro che avevano portato in salvo. Don Folli fu arrestato il 3 dicembre 1943 e assegnato al domicilio coatto a Cesano Boscone.

Come in una drammatica spy-story rivivono personaggi leggendari per coraggio e spirito d’iniziativa come l’ingegner Bacciagaluppi del CNL che coordinò l’esodo in Svizzera insieme alla moglie inglese Audrey P. Smith fino all’arresto, il suo braccio destro Bruno Bricchi che mise a disposizione dei fuggiaschi la sua cascina alla Pira di Nasca, i collaboratori Aldo e Zeffirino Mongodi, Mario Baggiolini che era il “contatto” con l’Azione Cattolica, Duilio e Rosetta Garibaldi fiancheggiatori partigiani, il futuro senatore Pio Alessandrini della Compagnia di San Paolo che offrì Villa Fonteviva, don Gianmaria Rotondo e don Francesco Repetto della curia arcivescovile di Genova che instradarono gli ebrei perseguitati verso l’alto Varesotto.

Il libro riprende le testimonianze sul movimento di liberazione che lo storico Pierangelo Frigerio raccolse nel 1975 sulla rivista Travalia e rievoca la tragica fine di due fratelli milanesi che villeggiavano a Castelveccana, Luigi e Franco Zampori e del loro compagno di sventura Carlo Mariani, tutti e tre alpini della Monterosa, catturati e fucilati a Fondo, presso Azzano in Garfagnana il 4 novembre 1944. La famiglia Zampori possedeva una villa in località Vallate a Bissaga e la casa che il nonno Luigi aveva lasciato in eredità al figlio Clemente, padre dei due ragazzi e valoroso ex soldato, decorato con la medaglia d’argento al valor militare nella guerra in Libia (e co-fondatore dell’associazione nazionale alpini nel 1919).

Arruolatisi nella RSI per sfuggire alle retate, Luigi e Franco furono inquadrati nella divisione Monterosa e dopo un periodo d’istruzione in Germania avvenuto forse a Munzingen dove i tedeschi addestravano le reclute italiane, al ritorno in Italia disertarono. Ma, anziché unirsi ai partigiani che operavano sui monti della Valcuvia, scelsero di andare a combattere i nazisti in Garfagnana dove furono catturati e fucilati. Il municipio di Castelveccana ha intitolato ai due fratelli la via Martiri Zampori nella frazione di San Pietro. Al civico 21 c’è ancora la casa del padre, sepolto nel piccolo cimitero con la moglie Maria Magnocavallo.

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