Il caso del leghista di Varese arrestato perché gli si imputano tre incendi dolosi non è solo giudiziario. È politico. Sociale. Etico. Il presunto piromane trova posto nel consiglio d’amministrazione della casa di riposo Molina, vi fu insediato l’anno scorso su nomina del sindaco. Giusto l’anno scorso, qualche mese dopo aver ricevuto l’incarico, patteggiò una pena di nove mesi, sempre per una storia di fuochi: fu infatti ritenuto responsabile d’aver mandato al rogo alcuni cassonetti. Nessuno ne trasse le conseguenze.
Ora il partito lo espelle. Chi lo scelse dichiara che non era al corrente dei trascorsi e delle propensioni del tipo. Chi lo propose affinché fosse scelto, afferma che se ne apprezzavano talune virtù e se ne ignoravano eventuali difetti. Chi se l’è trovato insieme dopo la scelta, tiene (mantiene) un contegno di riserbo, non avendo mai colto niente d’insolito nel collega di CDA. Tutto questo fa intendere come sia possibile (1) compiere errori gravi di conoscenza nell’assegnare i ruoli d’una classe dirigente; e come sia possibile (2) aprire facilmente le porte delle istituzioni, che dovrebbero schiudersi solo se attivate da verificate garanzie.
Il discorso va al di là della vicenda specifica. S’allarga oltre una singola persona. Scavalca il recinto d’una forza politica. Riguarda i criteri che informano la selezione dei rappresentanti pubblici. Dovrebbero essere il merito, la competenza, la moralità. A seguire gli altri, tra i quali non avrebbe titolo per esservi compresa la militanza di schieramento. Ma di solito a prevalere è quest’ultima, il resto viene dopo, sempre che venga. Se no pazienza, si procede lo stesso nel solco abitudinario dove affonda l’aratro partitico: meglio uno dei nostri, anche se inadeguato, che uno non dei nostri, pur se adeguatissimo. Capita talvolta che appartenenza e bravura coincidano, capita spesso che non coincidano affatto.
La politica peraltro non è la sola a evidenziare un difetto che può volgersi, com’è accaduto nella mesta (e pericolosa) storia varesina, in sofferto imbarazzo. La chiamata per sodalità, raccomandazione e calcolo attraversa ogni branca della vita collettiva e privata. È un fattore persistente, radicato, endemico dell’italianismo (e dell’antitalianismo) deteriore, costituendo l’ostacolo principale al progresso vero del Paese, alla sua moderna evoluzione, all’incisivo riformismo di cui tanto si chiacchiera e per cui poco si fa.
Difettiamo (per nostra sfortuna) d’una cultura prevalente che sappia anteporre, senza guardare in faccia a nessuno e con vantaggio di tutti, il sapere al potere; che rifiuti ogni tentazione di smaccato o surrettizio familismo; che eserciti una democrazia davvero sostanziale, invece che meramente formale. Ma non difettiamo (per nostra fortuna) della speranza, sia pure minoritaria e ingenua, in un Paese più laico, meno botteghista, disponibile verso i giovani, indisposto al compromesso. Per davvero popolare, e non populista per finta. È una speranza assurdamente tenace, appassionata, idealistica che però resiste alle simboliche fiamme (stavolta non proprio simboliche, nella nostra sfortunata città) cui la consegna l’incendiario di turno. Vale la pena di ricordarlo, pur se servirà a zero. Come la cenere.
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