Lago Tanganica, Kenia, 20 agosto 1950. È tarda sera. Il tramonto africano illumina il cielo di colori vivissimi. Il rosso, il verde, il blu in una danza surreale. Attorno a dei tavolini di quelli bassi, tipo coloniale, seduti su sgabelli di paglia intrecciata trascorrono il loro poco tempo di relax alcuni operai della Minerals Limited, il colosso anglo-americano che controlla decine di miniere di zinco e di rame nella zona. Sono italiani, inglesi, neri di ogni regione confinante, dalla Tanzania, al Congo, al Burundi, allo Zambia. L’aria è festosa. Volano bottigliette di birra e bicchieri di whisky. Suona una fisarmonica italiana a cui si uniscono i tamburi dei lavoratori indigeni. Quello che esce è un suono ora dolce ora metallico in un concerto inedito, divertente. Il lavoro della giornata nelle viscere della terra in condizioni estreme ha lasciato il segno. Occorre trovare il modo per disintossicarsi. Italiani e neri vanno d’accordo. Ci sono rispetto reciproco e simpatia. Gli italiani male sopportano il trattamento che subiscono i compagni lavoratori neri, sfruttati, derisi, isolati, utilizzati nei lavori più duri.
L’aria del colonialismo soffia ancora forte, la agognata indipendenza del Kenia giungerà solo con Yomo Kenyatta nel 1963 dopo infinite lotte patriottiche combattute dal movimento clandestino dei Mau-Mau, diretta emanazione dei Kikuju gli iniziatori della rivolta all’invasore. Lotte non sempre limpide, spesso molto violente con razzie e massacri. Gli inglesi che hanno nelle loro mani la ricchezza del Paese impongono il loro potere senza badare a regole.
Quella sera dell’estate del ’50, seppur in dimensioni contenute ma con lo stesso messaggio di prevaricazione, l’odio anglosassone contro i neri visti come degli schiavi si manifesta con una provocazione che presto degenererà in rissa. Un operaio inglese, giunto coi suoi connazionali un po’ in ritardo rispetto agli altri, pensa bene, vedendo i neri, di sfidarli e, in segno di disprezzo, poggia i suoi piedi sul tavolino sotto il loro naso. È il segnale della battaglia. Il gruppo degli italiani formato da un bergamasco, Battista Fedriga, e da cinque minatori della Val d’Ossola, Angelo Iacchini, Daniele Corsi, Costantino Pala, Aldo Corsi e Giovanni Vola, reagisce, prendendo la parte dei neri. Fa sapere a muso duro agli inglesi che è un comportamento censurabile. Gli inglesi non se la danno per vinta e continuano nella provocazione. Volano insulti, lanci di oggetti, un parapiglia rotto dall’arrivo improvviso, a tanto baccano, del direttore, l’inglese John Beckett.
La rissa immediatamente si spegne. Il direttore chiede il motivo dei fatti. Giovanni Vola, il più anziano del gruppo italiano, vicino ai cinquanta, ripercorre i momenti della serata e condanna l’atteggiamento tenuto dai colleghi inglesi, invocando rispetto reciproco.
Proprio da questo momento, con lo scenario a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, ha inizio una storia che nessuno scrittore o regista al mondo potrebbe pensare. Giovanni Vola che è di Pieve Vergonte, un paesino sulla strada che porta a Domodossola, mentre perora la causa dei neri, racconta al direttore Beckett, che conosce qualche parola di italiano, brandelli della sua vita. Il lavoro alla Miniera d’oro di Pestarena, la guerra, il desiderio di migliorare la sua condizione, obiettivo raggiunto se, rispetto alle mille lire guadagnate al giorno in Valle Anzasca, in Kenia la paga è di cinque volte superiore.
“Dove ha combattuto?”, domanda il direttore. “No – risponde Vola – non ho combattuto. Durante la guerra ho fatto il passatore”. “Cosa è il passatore?”, replica Beckett.
Giovanni Vola allora apre un intenso e drammatico libro dei ricordi quando subito dopo l’8 settembre del ‘43, dai settantacinque “campi di Mussolini”, i prigionieri catturati sui vari fronti di guerra (inglesi, americani, francesi, indiani, polacchi, neozelandesi, russi), disperati, senza una lira, stracciati, si erano avventurati senza meta in direzione del confine italo – svizzero per raggiungere la libertà. Con loro migliaia di ebrei a cui davano la caccia le truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italia.
Era stato il momento dei “passatori”, montanari, spalloni, contrabbandieri, gente che conosceva la montagna come le proprie tasche, che avevano accompagnato sino all’ultimo lembo d’Italia i fuggiaschi, a rischio della vita.
“Giovanni Vola parlava – dice Angelo Iacchini, allora testimone, oggi splendido ultraottantenne di Macugnaga – e il volto del direttore Beckett si illuminava sino a esplodere in una smorfia radiosa quando il Giovanni gli aveva elencato i nomi dei suoi “salvati”. Decine e decine di soldati alleati e ebrei, raccolti in Val Quarazza e provenienti dal campo di concentramento di Novara. Giovanni Vola i loro nomi li aveva fissati in mente uno ad uno. Citò fra i tanti gli ebrei Finzi, Ovazza, Morpurgo, poi fece i nomi di Hauss, di Vabre, di Popov, e di un tale Beckett, inglese, un ragazzone alto, vestito parte in divisa e parte in civile”. “Ha detto Beckett? Ma quello è mio padre!”. “Come suo padre?”, rispose Vola paralizzato dall’emozione”, ricorda Iacchini. “Sì mio padre, proprio mio padre, si chiama Thomas, era stato catalogato fra i dispersi sul fronte nord-africano ma ora so che era vivo”.
Angelo Iacchini quando mi racconta la storia nella sua accogliente casetta Walser a Borca di Macugnaga, si commuove e ride anche. “Il direttore – dice – a quel punto non solo seppe che sette anni prima il padre era vivo e non era disperso o caduto in guerra ma era entrato in Svizzera dal Monte Moro sopra Macugnaga, la via più classica per raggiungere il Vallese, dopo essere giunto a Piedimulera in treno da Novara”.
Sulle rive del lago Tanganica il direttore la sera dopo aveva organizzato una grande festa. Italiani, neri e inglesi si erano riappacificati. Giovanni Vola era stato il più acclamato. Con la sua fisarmonica aveva suonato e cantato a lungo “Arrivederci Roma”, la canzone in voga, resa celebre da Renato Rascel. I neri si erano aggiunti con i loro tamburelli. “Un chiasso e una allegria – ricorda ancora Angelo Iacchini – che nella vicina foresta ballavano credo anche le scimmie e gli elefanti”. Alla fine per tutti c’era stata una bella medaglia.
La storia del direttore Beckett che aveva informato immediatamente le autorità del suo Paese della notizia avuta nel lontano Kenia, per avviare nuove ricerche, si è conclusa male. Il padre Thomas, una volta giunto in Svizzera, era stato ospitato in uno dei tanti “campi di accoglienza” per i militari. Si era ammalato e, malgrado le cure, era morto. Il suo corpo era stato sepolto al cimitero di Sion.
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