Non bisogna scambiare una conversazione privata di un Papa per un documento ecclesiale, e soprattutto una conversazione va letta nel contesto di quell’incontro personale. Nel resoconto che Eugenio Scalfari traccia del suo incontro con papa Francesco (“La Repubblica”, 1 ottobre) ci sono alcuni nodi da chiarire.
Viene evidenziata questa frase “Ciascuno di noi ha una visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”.
Quest’affermazione non significa, affatto, che il bene sia soggettivo e non abbia una sua oggettività, per cui la coscienza basti a se stessa. Non si giustifica, quindi, il relativismo, secondo cui ciascuno ha una sua verità individuale. Infatti, come si può comprendere dalle parole di papa Francesco, si tratta proprio di scegliere tra il bene e il male; e per fare questa scelta ci vuole un criterio di scelta, cioè una verità attraverso cui prendere la decisione.
La “libertà di scelta”, che consiste nel non essere determinati dalle nostre condizioni psicologiche e dalle situazioni sociali in cui ci troviamo, è solo la possibilità della libertà, in quanto si è veramente liberi quando si sceglie di fare il bene, ed è questa la “libertà di autonomia”, la libertà morale. Lo dice con precisione il Vangelo “La verità vi farà liberi” (Gv. VIII, 32). Se per scegliere si deve usare un criterio di scelta, la nostra coscienza è la “misura” del nostro comportamento, ma è una “misura misurata”. Infatti, la “legge naturale” della coscienza rimanda a una regola, cioè alla “legge eterna” di Dio.
Qui siamo al punto centrale di questo problema. Un ateo onesto, rileva Maritain in “Alla ricerca di Dio”, nel quale rintraccia tutte le strade che portano al Bene assoluto, è in realtà uno pseudo-ateo. Infatti, se un uomo compie un’azione in quanto è giusta in se stessa, e non solo perché la riconosce come giusta la sua coscienza, ha già riconosciuto l’Assoluto, perché non si considera come regola di sé stesso, chiudendosi nella sua soggettività, ma riconosce l’oggettività della legge morale.
C’è un secondo passaggio da approfondire, papa Francesco dice “Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi e ascoltarsi e fare crescere la conoscenza del mondo che ci circonda”: sembra quasi che si debba rinunciare a testimoniare la verità. Ma si tratta di una questione metodologica, perché al cristiano è affidata la missione di annunciare il Vangelo a tutti i popoli e bisogna farlo senza violentare la coscienza, perché la verità, quando è conosciuta, s’impone di per se stessa nella sua oggettività.
L’apostolato non è proselitismo, Gesù ci invita ad essere suoi “amici”, non suoi servi (Gv. XV, 15). Il proselitismo crea gregarismo, fa prevalere la comunità sulla persona, rende succubi, perché si ferma alla emotività intersoggettiva, mentre la verità, cioè la legge morale, trascende e fonda la coscienza individuale, è al di sopra della comunità. L’apostolato esige il dialogo, da persona a persona, affinché ciascuno, nell’interiorità della sua coscienza, raggiunga e possieda la verità. Madre Teresa di Calcutta aiutava i musulmani a essere buoni musulmani, gli indù a essere buoni indù, ma non rifiutava il battesimo a coloro che attraverso il suo amore, liberamente, lo richiedevano, avendo scoperto che Cristo è la verità in persona.
La conclusione del colloquio di papa Francesco con Scalfari è molto significativa “La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza, né di ragione. Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia”. Dunque ci si salva nel Cristo conosciuto e nel Cristo sconosciuto, quel che conta è non fare resistenza alla luce interiore, come bene ha vissuto e spiegato sant’Agostino.
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