Crediamo che «To badogliate», si possa tradurre in italiano con il «tradire stupidamente». Ebbene, era dalla stipulazione dell’armistizio siglato a Cassibile il 3 settembre del 1943 che in Italia non si sentiva pronunciare questo termine coniato nella circostanza dal Comandante in Capo dell’esercito Alleato, il generale Eisenhower. Questi, infatti, ritenne che, per come era stato portato avanti dall’Italia, l’armistizio siglato dall’emissario di Badoglio, e che sarebbe stato annunciato il successivo 8 settembre, fosse stato uno «sporco affare», tant’è che non volle apporvi la sua firma. Sì, Eisenhower pur essendo presente alla stipulazione dell’armistizio si rifiutò di firmarlo, anche se questo particolare la storia scritta in Italia non lo dice, per non aggiungere l’umiliazione alla vergogna, tant’è che noi ce ne eravamo perfino dimenticati, almeno fino al 5 novembre dell’anno scorso. Quel giorno, infatti, nella Basilica di San Marco, a Roma, si tenne il funerale dell’ex segretario del Movimento Sociale Italiano, Pino Rauti, funerale al quale tentò di partecipare anche Gianfranco Fini (il primo badogliano della compagine berlusconiana…) ma dai presenti dentro e fuori la basilica ricevette soltanto spintoni e sputi al grido di «Badoglio – Badoglio». Saranno i corsi/ricorsi della storia di vichiana memoria, sarà che il modus operandi della nostra classe politica non è cambiato per nulla negli ultimi settant’anni, sta di fatto che il mese di settembre appena trascorso ha avuto molte, troppe, assonanze con quello del 1943.
Settant’anni fa Vittorio Emanuele III, una volta esautorato Mussolini con cui aveva amoreggiato per vent’anni e affidandosi a un vecchio arnese come Badoglio, si era illuso di poter mantenere in piedi la struttura statale conservatrice dopo aver fatto arrestare il capo del fascismo. E, nihil novi sub sole, il medesimo errore ha fatto il presidente Napolitano quando ha ritenuto che l’attuale sistema di potere potesse conservarsi grazie ad un’alleanza funzionale tra il PD il PDL/Forza Italia nonostante che la magistratura ordinaria prima e la Cassazione poi ne condannava il suo capo alla galera.
A questo punto il brutto dato politico che, volente o nolente, è venuto fuori è che il leader – discutibilissimo quanto si voglia – del secondo partito politico nazionale stia per essere estromesso dal Parlamento, dove l’hanno collocato col libero voto milioni di elettori, grazie a una legge – la Severino – che appare di molto dubbia costituzionalità. Ebbene, dopo cinque mesi di minacce, ammiccamenti, velate promesse e di finti segnali distensivi, il Cavaliere ha fatto saltare il tavolo, ma non il governo, costringendo i governativi del PDL, o Forza Italia, a dimettersi e la pattuglia dei dissidenti interni – i badogliani – capeggiati da Angelino Alfano, a venire allo scoperto, dopo di che ha rifilato loro una sonora mazzata con una semplice dichiarazione in Senato: «Il Pdl voterà la fiducia al governo. […] Una decisione presa non senza travaglio interno […] Conserviamo ancora la speranza di pacificazione tra le forze politiche che aveva spinto il Pdl alla formazione del governo di larghe intese. Mettendo insieme tutte queste aspettative, il fatto che l’Italia ha bisogno di un governo che faccia le riforme per modernizzare il Paese, abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo».
Contrariamente a quanto si crede, il dietrofront di Berlusconi non è stato una vittoria di Angelino Alfano e dei dissidenti ma, anzi, una loro cocente sconfitta perché dalla dichiarazione di Berlusconi in poi il loro peso nell’ambito della compagine ministeriale sarà pressoché uguale a zero e il gioco resta ancora in mano al Cavaliere (e, per trasmissione, ereditaria a Marina Berlusconi?). Ma col voto a favore del governo, oltre che a Letta, Berlusconi ha fatto un favore a molte persone. A Epifani perché ha costretto alla disciplina interna il frondista Renzi che pure lui è diventato più debole nel PD e si è dovuto dichiarare solidale con quel premier che, in realtà, avrebbe visto volentieri nella polvere per prenderne, poi, il posto. Ma il padre di tutti i favori, il Cavaliere l’ha sicuramente fatto a Giorgio Napolitano che, in caso d’implosione di questo governo, del “suo governo”, avrebbe dovuto onorare la promessa che fece all’atto del secondo insediamento e che suonava all’incirca così: «Se non farete i bravi guaglioni, me ne andrò a casa e vi lacerò tutti quanti in brache di tela».
In cambio di cosa ciò sia potuto accadere al momento non lo possiamo sapere, anche se qualche sospetto lo abbiamo, ma aspettiamo di vedere che cosa deciderà la giunta per le immunità del Senato sulla decadenza di Berlusconi e poi ne riparleremo. Insomma, alla fine non v’è stato un ribaltone come quello del 1994, ma soltanto una querelle anche se, stavolta, i protagonisti erano ancora più scadenti di quelli di circa vent’anni fa. Dopo il ribaltone del primo governo di Silvio Berlusconi provocato dalla Lega e le successive “sparate” di Maroni per nascondere che, in effetti, si erano fatti fare fessi da Oscar Luigi Scalfaro & C., Alfredo Biondi, liberale di antico conio, affermò che se non era per il Cavaliere, Maroni che è un avvocato «… starebbe ancora a recuperare i crediti dell’Avon». Giudizio icastico quello di Biondi ma dipingeva in modo perfetto la misera genia che si è agitata sulla scena politica nazionale da Tangentopoli a oggi. Una genia talmente miserrima e incapace che non riesce ad assegnarsi un ruolo neppure quando tradisce o contrasta un ideale giacché quelli che dovevano essere i “badogliani” del PDL/Forza Italia alla fine sono stati “badogliati” da Berlusconi. Perché se la decisione di Berlusconi di votare la fiducia all’ultimo momento è scaturita soltanto da un colpo di testa, nel caso avessimo preso una gigantesca topica, vorrebbe dire che negli ultimi vent’anni le sorti del nostro Paese sono state nelle mani di un ridanciano, pericolosissimo jocker.
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