Gli italiani che avevano egemonizzato il ciclismo del dopoguerra vincendo in serie Giri d’Italia, Tour de France, Giri della Svizzera e classiche in linea, non centravano la maglia iridata da ben ventun anni. L’ultimo a conquistarla era stato Alfredo Binda da Cittiglio nell’anno di molta grazia 1932, un trionfo varesino perché secondo alle sue spalle si piazzò Remo Bertoni, un ragazzo di Biumo di notevole spessore agonistico, vincitore nel ’34 del Gran Premio della montagna al Giro, ricordato da Dante Isella in un racconto, “La ciambella di gomma” pubblicato nel 1999.
Il mondiale di Lugano, in calendario per il 30 agosto del 1953, si offriva come un’occasione ghiottissima perché finalmente era stato scelto un degno percorso dal profilo altimetrico capace di selezionare il vincitore tra uno dei grandi campioni che innervavano il favoloso ciclismo dell’epoca. In verità gli assi italiani avevano malamente sprecato, due anni prima, l’occasione di Varese quando, come è noto, vennero beffati sul traguardo delle Bettole da Ferdy Kùbler, il fuoriclasse elvetico che nelle fasi finali delle gara seppe capitalizzare al meglio la rivalità che divideva i tre azzurri presenti nella fuga decisiva: Bevilacqua, Minardi e Fiorenzo Magni rientrato sui primi dopo un leggendario inseguimento in solitudine. Fausto Coppi, attesissimo al via, aveva invece dato forfait per una chiacchierata influenza dell’ultima ora. In realtà l’inserimento in squadra di Toni Bevilacqua, fresco vincitore dell’inseguimento al Vigorelli di Milano e la conseguente esclusione di un suo scudiero, lo avevano non poco contrariato.
Coppi era ormai prossimo ai trentaquattro anni, un’età non più verde anche per un fuoriclasse come lui, ed era consapevole che quella di Lugano poteva essere l’ultima occasione per completare il suo straordinario palmarés di vittorie. Già in fase di ricognizione, appena usciti dall’inverno, si era reso conto che la salita della Crespera, tra Bioggio e Lugano, sarebbe stato il suo ideale trampolino di lancio se gli dei del ciclismo lo avessero convenientemente assistito. La salita, non ancora addomesticata dalle esigenze del grande traffico automobilistico, era uno strappo maligno, con curve strette che si aprivano su vere e proprie impennate d’asfalto inframmezzate da una pavimentazione in porfido che, alla lunga, avrebbe inciso sui muscoli come ripetuti colpi di rasoio.
Dopo aver vinto il suo quinto Giro al termine di un epico duello sullo Stelvio con l’altro fuoriclasse elvetico, Ugo Koblet, Fausto rinunciò al Tour per finalizzare la preparazione al mondiale di Lugano.
Fu una vittoria annunciata. Dopo aver infilato gregari in ogni fuga per controllare gli olandesi attivissimi sin dall’inizio, intervenne di persona su un tentativo di Kùbler e su uno del campione francese Luison Bobet. All’undicesimo giro – ne mancavano sei al termine- portò la zampata decisiva. Dopo aver alzato il ritmo di corsa per tutto il decimo giro, all’inizio della Crespera produsse la progressione decisiva. Gli resistette solo il belga Germain Derycke, un buon passista vincitore di alcune grandi classiche. Da quel momento la corsa ruotò tutta intorno all’enigma Derycke. Gli italiani – avevano letteralmente invaso il luganese – temevano che il belga, al traino del campionissimo senza mai tirare un metro, potesse beffarlo in una eventuale volata a due. Un tormentone, un’ombra che Coppi vanificò al penultimo giro. Per schiodarlo dalla ruota – raccontano i testimoni di quell’attimo fuggente – Fausto sterzò verso il ciglio della strada rallentando vistosamente. Il belga perse il riferimento della ruota e rimase per un attimo smarrito, interdetto da quel gesto da pistard del suo rivale. Un batter di pedali, l’allungo in punta di sellino e il volo fino al traguardo di Agno, teso su un nastro d’asfalto tracciato dentro il prato del minuscolo aeroporto d’allora. Il belga finì secondo a più di sei minuti, poi Stan Ockers, quindi Gismondi e Defilippis a completare il dominio azzurro.
Ad attenderlo sul podio, per la prima volta in pubblico, gonna chiara e camicetta nera, vi era una luminosa “dama bianca”, la signora del lago di Varese, quella Giulia Occhini, moglie del medico condotto di Varano Borghi, che segnerà gli anni a venire della breve vita del campione di Castellania.
Di quel leggendario mondiale vi è traccia indelebile nel viale che conduce alla scalo aereo di Agno.Nel 1992 la strada venne infatti intitolata al campionissimo mentre tratti della vecchia Crespera in porfido sono stati opportunamente conservati in memoria di quella eccezionale giornata di ciclismo.
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