È stata una condanna decisa e senza appello quella pronunciata nel corso della sua visita al Santuario di Bonari a Cagliari da Papa Francesco, una condanna verso un sistema economico che non rispetta la dignità delle persone, che provoca povertà e disoccupazione, che ha messo al centro dei propri interessi non le persone, ma il denaro. “L’attuale crisi – ha detto il Papa – è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia, un sistema economico che ha al centro un idolo che si chiama denaro”. Un forte richiamo all’impegno sociale quindi, ma anche l’indicazione della necessità di un cammino che coinvolga la dimensione politica e sociale, le regole e le scelte di ciascuno di noi e quindi anche di chi ha responsabilità di governo così come degli imprenditori, degli economisti, di tutti coloro che possono influenzare l’andamento della società.
“Io vi dico coraggio – ha sottolineato il Papa rivolgendosi ai lavoratori – ma non voglio che questa sia una parola vuota detta con un sorriso. Non voglio fare l’impiegato della chiesa che dice parole vuote. Voglio che questo venga da dentro, ve lo dico come pastore e come uomo”.
Di fronte a queste parole ci sono tuttavia due rischi: da una parte quello di considerare i richiami del Papa come una rituale utopia, quindi come un gesto generoso, ma in fondo incapace di incidere sui meccanismi complessi della società globale; dall’altra quello di catalogare queste parole con i paradigmi dell’ideologia in una dialettica economica che si esaurisce nella sterile contrapposizione tra Stato e mercato.
Le utopie e le ideologie costituiscono in fondo gli schemi astratti in cui far inaridire la speranza e quindi la volontà di cambiamento. E invece le parole del Papa non sono una voce che grida nel deserto, ma si inseriscono in un cammino che la Chiesa e il mondo cattolico (ma non solo) stanno portando avanti nella concretezza dei tempi. Con segni concreti, iniziative coraggiose, testimonianze coerenti ed efficaci.
In questa prospettiva va collocata la riflessione nata dall’enciclica “Caritas in veritate” del giugno del 2009, un’enciclica in cui erano centrali i richiami all’etica, alla necessità di rivedere profondamente il sistema finanziario, all’esigenza di inserire nel mercato la logica del dono e la dimensione della solidarietà. In quell’enciclica si indicava un cammino insieme di trasformazione e di partecipazione nella convinzione, come già affermato dalla “Centesimus annus”, che il mercato rimane lo strumento migliore nelle mani dell’uomo per far crescere l’economia. Con un’ambizione quasi provocatoria: quella secondo cui la solidarietà e forme di impresa in cui il profitto non sia l’unica motivazione, aiutino il mercato a funzionare meglio: “È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa – dice l’enciclica – a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo”.
In questa logica è altrettanto significativo che si stia sviluppando quel filone di pensiero economico che fa proprio capo all’“economia civile” e che trova le sue radici nell’Umanesimo e nel Rinascimento e la sue prime elaborazioni teoriche nelle opere dell’economista Antonio Genovesi, a metà Settecento.
E proprio nei giorni scorsi è stata inaugurata a Loppiano, dove ha sede il Movimento dei Focolari, una Scuola di economia civile per iniziativa di due illuminati economisti come Stefano Zamagni e Luigino Bruni. Una scuola che si propone di essere un laboratorio permanente per riconciliare l’economia con la società, per rimettere al centro la persona, per considerare il mercato, il denaro, il profitto non come fini, ma come strumenti che sollecitano la libertà e la responsabilità delle persone. Per dimostrare in fondo che un’altra economia è possibile.
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