C’era Matilde, che ha pochi mesi e che ancora non sa cosa sia l’Oratorio. Ma mamma e papà l’hanno portata lo stesso perché il profumo d’amicizia si sente anche in fasce. Ed è un balsamo che fa bene al cuore.
C’erano i bambini che adesso scorrazzano per il campo da calcio in porfido e in quello da pallacanestro in cemento. Sono loro i padroni di casa, e ancora non lo sanno. Si limitano a frequentare le aule del catechismo e gli spazi per i giochi senza immaginare che quello potrebbe diventare l’incubatore della loro vita futura, come è stato per tanti loro padri e loro nonni.
C’erano i ragazzi che in oratorio sono cresciuti e che ora si trovano, come la Silvia leopardiana, a salire il “limitar di gioventù”. Alcuni si vedono ancora tutti i giorni perché le amicizie sono rimaste salde come un tempo. Altri non si ritrovavano da qualche anno. E allora sono stati baci e abbracci, perché la vita può sbatterci di qua o di là, ma il cuore, quello resiste a ogni trasloco e custodisce ricordi e memorie meglio di qualunque cassaforte.
C’erano i padri dei ragazzi di oggi, anche loro cresciuti in oratorio, quando la televisione a colori era una novità prodigiosa e il Tom Tom funzionava tirando già il finestrino e chiedendo al primo passante: “Scusi, sa dov’è via Garibaldi?”. Una generazione che è passata dal telegrafo a Internet in un turbinìo di conquiste tecnologiche. E che, incalzata dal futuro che avanza, ha rischiato di perdere il legame con le radici. E feste come quella dell’Oratorio sembrano fatte apposta per recuperarlo.
C’era l’Aldo, la leggenda del basket, che si è commosso a rivedere, nella mostra allestita in quella che per tutti gli ex oratoriani è e rimane “la palestrina”, le foto dei suoi compagni di un tempo quando i ragazzi della Robur distribuivano lezioni di basket a mezza Italia. Foto sbiadite, in bianco e nero, che regalano emozioni dimenticate. Così come i nomi degli altri giocatori schierati davanti al fotografo. Qualcuno (Meneghin, Rusconi, Gergati, Rodà, Guidali, Veronesi solo per fare qualche nome) approdato alle cronache nobili della pallacanestro che conta. Gli altri dirottati verso altre mete e altri percorsi. Tutti accomunati dall’amore per lo sport. Non di quello che fa vincere, di quello che fa sudare.
C’era il signor Mario, che di anni ne fa cento fra qualche mese e che è diritto come un fuso e arzillo come sempre. Le sue mani hanno sfiorato i tasti della linotype e quelli dell’organo con la stessa sapienza e con lo stesso amore. E adesso che la linotype è un oggetto da museo, si è convinto ancor più che la musica è un dono impagabile, perché regala gioia a chi la fa e a chi l’ascolta.
C’erano i sacerdoti che in questi anni si sono alternati nella cura dei ragazzi varesini. Da don Arnaldo Bertolotti a don Stefano Silipigni, passando per don Giancarlo Greco, don Antonio Costabile, don Maurizio Braga e don Paolo Fumagalli. Qualcuno era presente, qualcuno è apparso sullo schermo in videomessaggio. Non tutto il byte viene per nuocere.
C’era – ce ne siamo accorti tutti – don Luigi Balconi. Non si vedeva, ma c’era questo prete morto a soli trentasette anni in una mattina di luglio del 1983 nella sacrestia della Basilica, quando ancora molto aveva da dare all’Oratorio, ai suoi ragazzi, alla nostra Chiesa.
C’erano i sacerdoti che all’oratorio San Vittore sono cresciuti e hanno sviluppato la loro vocazione, da monsignor Gilberto Donnini a don Roberto Campiotti. E poi don Giovanni Rossotti, don Adriano Cadei, don Ambrogio Reggiori, don Giampaolo Ermoli, prodotti da quella fucina della Fede che la parrocchia di San Vittore si è dimostrata nella sua lunga storia.
C’erano i volontari in cucina che sgobbavano da ore alle prese con sughi, pasta, polenta e spezzatino. Perché dare da mangiare a più di duecento persone non è uno scherzo. D’accordo che si è tutti amici, che nessuno dovrebbe sognarsi di fare lo schizzinoso o di lamentarsi per il servizio, ma a girare il paiolo della polenta, quando le dimensioni sono da rancio, ci vogliono buoni bicipiti e tanta pazienza.
C’erano i fotografi, pronti a fissare nella foto di gruppo questo incrocio di vite, di storie, di emozioni. E c’era lui, il palazzo dell’Oratorio San Vittore di via San Francesco d’Assisi che di anni ne compie cinquanta. Venne costruito in poco più di dodici mesi di lavoro grazie ai contributi di migliaia di varesini che davano i loro risparmi per un mattone. Volevano regalare una casa nuova ai loro figli, perché, in un ambiente più funzionale e moderno, potessero crescere meglio. Per mezzo secolo ci sono riusciti. Adesso tocca ai loro figli e ai figli dei loro figli arrivare a spegnere le cento candeline.
E se ci fosse bisogno di qualche buon consiglio, si può sempre chiedere al signor Mario.
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