Mezzo secolo fa, il 9 ottobre 1963, tra Longarone, Erto e Casso, estremo confine dell’Italia povera in canna morirono per responsabilità umana e sete di denaro 1910 persone. Chi sopravvisse fu risarcito a metà dopo una catena di processi iniziati, rinviati, prescritti sino alla condanna definitiva della Sade, l’azienda costruttrice della diga del Vajont ma l’orrore e il peso di quella ventata di morte non si sono mai attenuati. Ci sono ancora oggi dei sopravvissuti, veri fantasmi che non riescono a prendere sonno, che soffrono di attacchi di panico, che temono come il diavolo l’acqua diventata per loro il peggiore nemico. Quei quattro interminabili minuti in cui il disastro si produsse e si spense si perpetua nella coscienza di questi disgraziati.
Erano inermi cittadini del Veneto, contadini, braccianti, muratori, vecchi, ragazzi, donne, bambini, sterminati dalla valanga di fango del Monte Toc franato come un gigante impazzito sulla nuovissima diga. Una strage di Stato, uno Stato distratto e incurante, condensata in alcune cifre che rendono l’idea di cosa avvenne in quell’Italia neo-centrista, industriale, imprenditoriale dalle bocche avide che avviò sui due piedi, neanche il tempo dei funerali, un macabro, osceno palleggiamento di responsabilità: 270 milioni di metri cubi di roccia invasero, alla velocità di 108 chilometri orari, il bacino artificiale che già ne conteneva 105.
L’onda che si produsse superò i cento metri d’altezza, superò il bordo estremo dell’impianto “costruito – spiegarono diligentemente in una scombinata difesa i tecnici degli ‘elettrici’ – a regola d’arte”. Balle. Dino Buzzati scrisse “di un sasso in un bicchier d’acqua”. Montanelli rincarò la dose sostenendo addirittura “alla Berlusconi” che “fu colpa dei comunisti”. Quelli erano i tempi.
Che la terra si muovesse l’avevano visto a occhio nudo i vecchi del posto che si erano premurati di farne denuncia. Un tramestio giornaliero, regolare, segnato da cedimenti minimi ma significativi. Quel pericolo tremendo l’aveva avvertito e raccontato con la sua impareggiabile coraggiosa penna anche la giornalista dell’Unità Tina Merlin, ex partigiana friulana, comunista. Aveva scritto reportage di fuoco. Aveva ammonito, messo in guardia. Donna e comunista! Il risultato, tanto per cominciare e mettere in riga quella ragazza chiacchierona, fu un bel processo. Ci pensò insomma una pelosa magistratura “amica degli amici” incriminandola “per aver diffuso notizie tendenziose e false atte a turbare l’ordine pubblico”. La Merlin fu processata ma assolta da un coraggioso giudice controcorrente, lei simbolo di quel giornalismo che allora non era ancora in voga. Vennero le radio francesi e tedesche ad intervistarla. Il mondo si commosse e si indignò.
Tina, bella, alta, donna, comunista, aveva come in un nastro riavvolto il nastro della sua verità. Signori potrebbe accadere qualcosa! Attenzione a quella montagna fatta di palta! Svuotate tutto! Grida senza risposta finché venne la notte nera.
Erano le 22,53 di quell’autunno avanzato. Una sera come tante altre. Monotona, grigia. A Longarone, provincia di Belluno, la diga era entrata in funzione da un paio d’anni. Era considerata un’opera d’arte nel suo campo. Lo scopo era di produrre energia elettrica, appena nazionalizzata. Una bomba a cielo aperto a ridosso di una terra che stava sbriciolandosi. I più a quell’ora erano già andati a riposare. Non si accorsero di niente. Altri, pochi, erano riuniti in due bar, come si usava allora, a vedere la partita di calcio Real Madrid – Rangers Glasgow. Ma anche questi poveracci non avvertirono l’ondata che si sarebbe abbattuta sui loro corpi. Fuori, le tenebre. E, nelle tenebre, il mare scuro dell’acqua potente, invasiva.
Bepi Zanfron, un fotografo di Belluno, era accorso in zona avvertito dai vigili del fuoco. “È scoppiata la tubatura del gas, forse ci sono sei morti, vada”. Solo la fortuna gli aveva evitato di essere risucchiato dal vortice prodotto dalla massa d’urto.
L’acqua si era portata via tutto. Case, edifici pubblici, strade. Intere famiglie. La Tina Merlin, aggrappata al telefono, terrorizzata, aveva chiamato a Milano l’Unità. Aveva risposto Franco Malaguti, diventato nel tempo uno dei più famosi grafici italiani. Ma a quell’ora non c’era più nessuno. Solo più tardi si era avuta contezza delle proporzioni reali della tragedia.
Oggi Longarone ha un sindaco, Roberto Padrin, che sposa la tesi del “non dolo”. Crede alla colpa grave di geologi inetti e di bocche fameliche decise ad andare avanti senza intoppi di alcun genere. Lo fa forse per contenere in qualche modo il dolore sempre latente. I più sono di parere opposto e invocano quella giustizia che non hanno avuta per intero.
Resta ora, memoria dolente di quel fatto terribile, il cimitero di Fortogna, a qualche chilometro di distanza, disseminato di lastre bianche, immacolate. Non è stato infatti possibile riconoscere tutti e dare un volto a ben più della metà dei caduti.
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