Ho scritto un libro sul 25 aprile non tanto sulla giornata della Liberazione e sui moti insurrezionali quanto sul “dopo”. Il libro chiude un ciclo iniziato nel 1985 con la storia della Repubblica Sociale italiana (“Fascismo, guerra e società nella Rsi. Il caso di Varese”, con prefazione di Luigi Zanzi, edito da Franco Angeli) e proseguito nel 2000 con “La notte di Salò” (edito da Arterigere) che trattava l’occupazione tedesca e fascista della città e i moti partigiani in un territorio che per la sua conformazione orografica non facilitava la guerra per bande.
Il libro di oggi, edito da Emme Effe, Varese, con la consulenza grafica di Luciana Gamberoni e di Carlo Scardeoni, ha questo titolo: “I giorni della speranza e del castigo. Varese 25 aprile 1945” e una serie di sottotitoli esplicativi: La resa nazifascista, Il tribunale del popolo, Il campo di concentramento di Masnago, I processi della Corte d’Assise, Gli eccidi delle bande irregolari, Il progetto Alleato di occupare la provincia, Il fallimento delle Commissioni Epurazione e Illeciti arricchimenti del regime, L’amnistia Togliatti.
Le domande che mi posi anni fa prima di cominciare la complessa ricerca documentaria e di affrontare un lungo faticoso cammino fra i pochi testimoni esistenti, certamente segnati da vuoti e da immancabili errori erano precisi.
Che Stato nacque dopo la vittoria? Quale fu il piano di controllo politico studiato degli Alleati? Fu fatta giustizia? Si verificarono degli eccessi? Si fecero i conti con i responsabili? Come operarono le Corti d’Assise Straordinarie? Perché fallirono l’epurazione e l’inchiesta nei confronti di chi si era arricchito illecitamente (e furono molti, industriali e commercianti) all’ombra dei nazifascisti? L’amnistia Togliatti del ’46 raggiunse il traguardo di quella “pacificazione nazionale” per cui fu varata dal governo di De Gasperi e poi applicata generosamente dalla Suprema Corte di Cassazione?
Rispondere in questa sede sarebbe difficile, lungo, non esaustivo. Soprattutto inopportuno. Parlerei di me stesso, del mio lavoro. Rimando al testo di oltre seicento pagine, alle fotografie e agli scritti dell’apparato documentario. Chi fosse interessato a conoscere fatti che organicamente hanno avuto una loro forza d’urto perché spiegano, almeno in parte, le difficoltà incontrate durante la rifondazione dell’architrave statuale lo potranno fare eventualmente offrendo un contributo critico a cui non mi sottrarrò.
Quello che in questa sede voglio sottolineare è un vecchio, mai abbastanza richiamato concetto a cui sono legato e che ha sempre fatto fatica e fa fatica a fare breccia soprattutto nel “reducismo”.
La storia della Resistenza non può né deve essere mitizzata. Fu storia di una estrema coraggiosa minoranza eletta (soprattutto nella nostra provincia) e, in quanto tale, storia di uomini, donne, vecchi, giovani che, impegnandosi nella lotta, compirono anche errori, frutto di debolezze umane, di circostanze particolari, di valutazioni errate. Per questo non mi sono sottratto a metter mano, fra i tanti temi, a una pagina che insanguinò anche le nostre terre, quella degli eccidi indiscriminati che pur ci furono (mai affrontati con la chiarezza necessaria) frutti diretti certo della violenza pregressa del fascismo, non solo quello della fase finale, compiuti da chi, nella detenzione feroce degli sgherri di Salò, una volta libero, ritenne di muoversi senza regole, con pari violenza, malgrado il Comitato di Liberazione Nazionale (subì negli anni ’50 un processo penale), avesse con scarsi risultati tentato di frenare un fenomeno che non rispondeva certamente agli aneliti di legalità della Resistenza.
Scriveva Primo Levi in un suo saggio chela Resistenzaha avuto dei nemici e ne ha ancora. Soprattutto i “nemici” sono quelli che tendono a “imbalsamarla”.
“Per descrivere e trasmettere i fatti di ieri – sosteneva Levi – abbiamo troppo spesso adottato un linguaggio retorico, agiografico e quindi vago (…). Se desideriamo che i nostri figli sentano queste cose e pertanto si sentano nostri figli dovremo parlar loro un po’ meno di gloria e di vittoria, di eroismo e di sacro suolo; e un po’ più di quella vita dura, rischiosa e ingrata, del logorio quotidiano, dei giorni di speranza e di disperazione, di quei nostri compagni morti, accettando in silenzio il loro dovere, della partecipazione del popolo (non tutto), degli errori commessi e di quelli evitati, dell’esperienza cospirativa e militare faticosamente conquistata, attraverso sbagli che si pagavano a prezzo di vite umane, della laboriosa (e non spontanea, e non sempre perfetta) concordia fra formazioni di partiti diversi. Solo così i giovani potranno sentire la nostra storia più recente come un tessuto di eventi umani e non come un “pensum” da addizionare ai molti altri dei programmi ministeriali”.
Dunque nessun falso canone celebrativo. Occorre raccontarela Resistenza“senza inghirlandarla”. Soprattutto l’immediato “dopo”. Con dolore, franchezza e una dose di “pietas”.
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