Varese ha un pregio un po’ nascosto e un po’ sottovalutato, quasi che non fosse così importante da meritare la luce di un’utile notorietà. È la sua scuola di ricerca storica, che ha prodotto intellettuali d’alto livello nelle più diverse epoche, fin dal tempo del Tatto e dell’Adamollo, e poi del Borri e del Brambilla, e ancora del Giampaolo, dell’Ambrosoli e di molti altri della contemporaneità. Indicata come povera di studi, riluttante a interessarsi di che cosa non sia d’un materiale profitto, incline a trascurare il passato per concentrarsi esclusivamente sul presente, Varese ha invano cercato di richiamare l’attenzione sulla realtà, spesso diversa dalla sua stereotipata rappresentazione. Nell’immaginario forestiero era città conflittuale con la cultura, e tale purtroppo è rimasta, nonostante segnali diversi ed evidenti di linee di tendenza opposta.
Questa Varese, per così dire, anticonformista, cioè fuori dallo schema consueto che la qualifica (squalifica) senza renderle giustizia, offre l’ennesima occasione per smentire il luogo comune. La propone l’uscita d’un volume firmato da Franco Giannantoni, “I giorni della speranza e del castigo”, che svolge, con una documentazione originale e un ricco apparato fotografico, il tema del 25 aprile ’45. Il libro completa un ciclo di approfondimenti sulle vicende locali del fascismo repubblicano e della Resistenza iniziato nel 1984 con “Fascismo, guerra e società nella RSI. Varese 1943-1945″ e proseguito nel 2001 con i due volumi “La notte di Salò 1943-1945. L’occupazione nazifascista di Varese dai documenti delle camicie nere”.
Verso un autore che ci regala un simile tesoro non dovremmo limitarci al tributo dell’elogio di prammatica. Nell’interesse delle generazioni a venire, gli dovremmo chiedere (glielo dovrebbero chiedere le istituzioni pubbliche, e massimamente l’Università dell’Insubria) di spiegare con una serie di lezioni ai giovani ciò che ha messo per iscritto. Ciò che ha appreso durante decenni di certosino indagare. Ciò che la sua esperienza scientifica ha maturato. A quando l’assegnazione d’una doverosa cattedra accademica, sinora inspiegabilmente negatagli, allo studioso di più alto profilo espresso oggi da Varese?
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Il meeting di Cernobbio ricorda puntualmente il valore della saggezza: conoscenza, equilibrio e avvedutezza. Al di là delle specifiche indicazioni su argomenti vari, il workshop propone infatti con soffusa discrezione un insegnamento etico tanto più prezioso quanto poco praticato. Ed è probabilmente questo l’orgoglio maggiore di Alfredo Ambrosetti, che con il suo Studio – fondato nel 1965 e da lungo tempo di notorietà internazionale – ha avviato e poi proseguito l’appuntamento di fine estate sulle rive del lago di Como.
Ambrosetti, i nostri lettori lo sanno bene, è un varesino doc. Un varesino d’eccezione. Forse il varesino di più rilevante prestigio nella contemporaneità. Il suo nome è divenuto l’equivalente di competenza ed efficientismo, merito e organizzazione, sobrietà e privacy. Un nome così affidabile, apprezzato e qualitativo da contrassegnare e imporre uno stile. Lo stile Ambrosetti. Ecco perché d’un simile nome (d’un simile stile) Varese dovrebbe farsi vanto, uscendo dal silenzio istituzionale e assumendolo a simbolo della municipalità, della sua storia, del suo passato e insieme del suo presente. Dovrebbe cioè insignire Alfredo Ambrosetti della Martinella del Broletto, la più alta onorificenza civica. Anziché suggerire nuove glorificazioni a personalità divisive (Berlusconi) e conservarne d’imbarazzanti tra le vecchie (Mussolini), i consiglieri comunali colgano l’opportunità, sinora sprecata, di premiare chi rappresenta il massimo del rappresentabile: non si presta a obiezioni politiche, ha lontane e predilette radici locali, esporta le virtù di casa nostra nel mondo.
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Per l’ex caserma Garibaldi siamo ancora alle speranze. Non alle certezze: alle speranze. Le speranze chela Regioneaccorci i tempi burocratici per sbloccare un’impasse ormai divenuta cronica. Altro che le certezze su chi e che cosa e come restaurerà, demolirà, ricostruirà. L’ex caserma Garibaldi appartiene da sei anni al Comune di Varese, e da un secolo e mezzo alla municipalità varesina. Ha assolto per lungo tempo a obblighi militari, ne dovrebbe da tempo adempiere ad altri, preferibilmente culturali. Ma il tempo passa, la tempistica d’un possibile interventismo è ferma, e la caserma sta lì. Rimane lì.
Purtroppo non vi rimane immobile, integra, inattaccabile dalle offese delle intemperie e della vecchiaia, come almeno sarebbe auspicabile che vi rimanesse. Vi rimane a stento, in mezzo alle ambasce, distruttibilissima: i muri sbrecciati che perdono pezzi, gl’infissi divelti e talvolta svolazzanti, il degrado padrone incontrastato del luogo. Ormai il vero titolare dell’edificio non è il Comune, è il Degrado.
Da sei anni (e perfino da epoche precedenti) sentiamo raccontare di progetti “nero su bianco” per il risanamento dell’impianto, la riconversione dell’area, il rilancio d’una zona cruciale della città. Nelle more di tale balbettìo operativo, il Degrado moltiplica le situazioni di pena, e diventa il dominus del territorio circostante la caserma, oltre che della caserma stessa. La deficitaria vivibilità di piazza Repubblica è direttamente connessa alla fatiscenza di quella che dovrebbe essere una gloria monumentale e invece è un inglorioso vestigio.
Delle due l’una: o lo si restituiva alla nativa dignità, trasformandolo in una sorta di grandioso reperto museale che obbedisse alla funzione espositiva di cimeli e tracce della storia patria; oppure se ne conservava l’anima architettonica costruendovi sopra un fabbricato d’armoniosità ambientale che ospitasse teatro, auditorium, biblioteca e/o altro considerato funzionale alla vita pubblica. Ma delle due non è stata selezionata né la prima né la seconda. Si è preferita la terza via, nel nostro Paese sempre popolarissima: la via di fuga dalla responsabilità di scegliere.
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