L’avvento della televisione commerciale ha recepito la grande trasformazione sociale dell’Italia negli ultimi decenni del secolo scorso ma, a sua volta, ha influenzato i costumi e comportamenti degli italiani diventando lo strumento di quella particolare forma politica chiamata “audience democraticy”.
In parallelo alla rivoluzione individualistica trascinata dal consumismo, la televisione ha favorito, con la prevalenze delle immagini sulle idee, la personalizzazione dei partiti attribuendo ai leader un carisma artificiale.
L’ascesa di Silvio Berlusconi è stata facilitata da una visione più fluida, disinibita e individualistica della vita pubblica e dalla concomitante crisi di idealità e di contenuti dei partiti tradizionali che a loro volta si sono adattati agli umori prevalenti per continuare a raccogliere il consenso delle masse, più istruite di un tempo ma non abbastanza per sfuggire alla tendenza della semplificazione della realtà.
Questa situazione è all’origine della crisi del dibattito politico alto e colto che viene sostituito dal “politicians populism”, il populismo semplificatore alla portata di tutti. John Stuart Mill diceva che “la libertà come principio non è applicabile fino al momento in cui gli uomini non diventano migliori attraverso la discussione libera e uguale”.
Silvio Berlusconi, a capo di un impero mediatico e immobiliare, non è solo l’uomo più ricco d’Italia ma anche un leader naturale che è riuscito a interpretare il mutamento in atto, sfruttando l’ errata opinione comune che “chi è già ricco non può rubare come gli altri politici”. Su questi presupposti è stata costruita la sua popolarità e il suo falso carisma che non sono stati scalfiti neppure dalle numerose inchieste giudiziarie e dalla condanna definitiva per frode fiscale che hanno accompagnato la sua carriera pubblica.
Determinato e pieno di energie è però un personaggio intellettualmente debole, incapace di elaborazione culturale, che si è circondati di collaboratori inadeguati che sono stati incapaci di governare l’Italia tant’è che, di fronte alla più grave crisi economica dopo quella del 1929, ha abbandonato nel 2011 il governo nelle mani di Mario Monti (governo dei tecnici) e dopo le elezioni del 2013 ha dovuto accettare il premier Enrico Letta (governo delle larghe intese). La veloce conversione di “Forza Italia” (slogan della Democrazia Cristiana nelle elezioni del 1983) dal grumo iniziale di idee liberiste a un individualismo fondato sugli interessi ha cancellato le culture politiche tradizionali. Ha introdotto un radicalismo di stampo populista su misura delle aspettative dei nostri connazionali fondate sulla ideologia del diritti introdotta con la rivoluzione giovanile del ’68, in cui i doveri erano stati dimenticati e sostituiti con il programma del “tutto e subito” che ci ha portato alla rovina. I contenuti della politica sono così evaporati in una indistinta e generale critica della politica e dei partiti che ha finito per alterare anche i concetti fondamentali della democrazia.
Raggiunto infine, dopo vent’anni di processi, da una sentenza definitiva per un reato incompatibile con il ruolo di reggitore dello Stato, il leader e il suo partito sono impegnati ad accreditare la teoria del “complotto” per negare agibilità politica al premier. Ma la concezione della democrazia include anche quello dello “Stato di diritto” che pone la legge al di sopra dei comportamenti individuali. Il voto della maggioranza non basta a legittimare l’inosservanza delle leggi e delle sentenze; il rispetto della “divisione dei poteri” impedisce di prevaricare il rispetto per il popolo; contrapporre potere politico e potere giudiziario significa aprire la strada a pericolose forme di autoritarismo, come nella dittature dove il popolo vota ma il capo impone i suoi interessi.
Le sentenze si possono discutere ma vanno applicate se non si vuole che la società venga corrotta dai potenti e disgregata per la incapacità di osservare le regole decise insieme.
Berlusconi non è stato all’altezza del suo messaggio; glielo ha impedito il suo populismo, la scorciatoia di far leva sulla sua persona invece che sulla realtà delle cose da cambiare.
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