Come il buio è accostato nell’immaginario collettivo alle peggiori bassezze umane così le tranquille giornate ferragostane si accostano solitamente alle peggiori nefandezze civiche. C’è sempre chi approfitta della sonnolenta e distratta vigilia per condurre a termine qualche operazione assai discutibile. È accaduto ancora a Varese. In una afosa notte di mezza estate è scomparso, tirato giù da ruspe e gru, uno dei simboli della città, il corridoio aereo che univa i due storici plessi industriali della Conciaria Cornelia, nel rione di Valle Olona. Tutto regolare per il Burocrate che ha disposto l’abbattimento annunciandolo con solo ventiquattro ore di anticipo insieme ai provvedimenti di chiusura temporanea della via Dalmazia. Un problema di regolamento del traffico, insomma. “Tutto regolare” per l’antonomastico Burocrate sia esso un funzionario comunale o un sindaco o un assessore che a Lui hanno delegato la loro incompetenza o il loro disinteresse. La sicurezza innanzi tutto. E il metallico ponte aereo pare ormai che sicuro non lo fosse più.
Per il Burocrate è meglio autorizzare l’abbattimento che affrontare magari lunghe discussioni coi proprietari per indurli a mettere in sicurezza il manufatto. Del resto per Lui cultura è forse solo quella che proviene dai beni artistici. C’è forse una cultura legata alla realtà del luogo, al territorio in cui avviene lo sviluppo e alle tradizioni del popolo che lo vive? Sono beni culturali l’archeologia industriale, l’ambiente, la linea d’orizzonte, la storia degli uomini?
Si dirà che nel caso è impossibile parlare di archeologia industriale. Non c’è neppure una ciminiera da salvare… Un modesto manufatto in ferro costruito come cordone ombelicale per il collegamento di due pezzi di una grande fabbrica.
Stiamo parlando di Valle Olona, la Vall per i varesini doc, quella lingua di terra raccolta tra le spalle di due colline, che corre dalla Fòla di Induno sotto la Valgella fino alla Cà Bassa ai confini con Malnate. Stiamo parlando del territorio cuore industriale della città, cresciuto sulle rive del fiume Olona sfruttandone le pur scarse acque, preziose però e indispensabili alle nuove tecnologie produttive. È da qui che il nome della nostra città, il nome di Varese ha preso l’avvio per essere riconosciuto oltre i confini. Il marchio l’hanno portato le scarpe confezionate col cuoio e coi pellami lavorati nella Conciaria Cornelia, nella Fraschini, nella SAP. Il nome di Varese lo ha portato lontano anche la caratteristica carta con piacevoli eleganti grafie uscita dai cilindri della vecchia Cartiera Molina poi diventata Sterzi. Sono marchi, brand direbbero oggi, nati insieme dal coraggio, dall’impegno e dal rischio di avveduti “capitani d’industria” e dal lavoro, tanto lavoro, fatiche e sofferenze di generazioni di operaie ed operai.
Il Burocrate ignora quanto lo sviluppo industriale abbia inciso sulla società civile e quindi sulla storia sociale. Ignora il ruolo che l’industrializzazione ha avuto nella organizzazione dell’esistenza delle persone e l’influenza che essa ha avuto nel progressivo profondo miglioramento delle strutture della società.
Il Burocrate non sa, non gli interessa sapere che quel metallico ponte sospeso è stato il simbolo de la Vall, il quartiere operaio per eccellenza della città di Varese. Non solo il collegamento funzionale di due plessi di una grande realtà operativa ma la porta, l’arco d’ingresso di un laborioso insediamento umano che ha trovato sussistenza nelle vicine fabbriche o nelle attività da esse indotte. Un insediamento che ha sviluppato i suoi rapporti di solidarietà e di progresso sociale sia all’ombra della parrocchia che della Cooperativa Casa del Popolo, un tempo difesa a fucilate dall’assalto delle squadracce fasciste che volevano bruciare e distruggere quel baluardo popolare.
Il Burocrate non pensava nella sua incultura di cancellare col suo atto una storia di uomini, di distruggere i ricordi di operai che si sono rotta la schiena in maleodoranti reparti-acquitrino, dove si scarnificavano le enormi pelli bovine stese su groppe di sasso prima di passarle nelle vasche. Né pensava alla maledizione delle operaie avvolte in malsane nuvole di cromo spruzzate per dare l’ultima passata alle pelli. Forse si sentirà, il Burocrate, addirittura un benefattore, convinto magari di avere rimosso dalle menti un passato di sofferenze.
E ancora, al Burocrate non interesserà per nulla sapere di avere distrutto il ricordo delle tante meravigliose emozioni provate da quel bambino che con altri amichetti era sceso da Belforte per vedere la corsa delle automobili, il Gran Premio Città di Varese. Seduto sul muretto vicino al lavatoio pubblico, la funtana, aveva osservato attonito quel ponte in ferro. Per la sua fantasia di adolescente quello era il labbro superiore di un enorme dinosauro dalla cui bocca uscivano lampi di fuoco con tuoni da fare paura. In realtà erano automobili, bolidi a coda appuntita, che con frastuono indicibile spuntavano dalla curva di via Merano. Erano i Castelbarco, i Lurani, i Battaglia, i Cornaggia, piloti che si rincorrevano, si arrotavano, si sorpassavano per inseguire una vittoria. E il dramma, il terrore del bambino quando un pilota uscito di strada a pochi passi da lui sparò sull’asfalto tanti denti rotti nell’urto contro un muretto!
Nulla di nuovo sotto il sole varesino. Varese continua a essere posseduta dal complesso del Conte Ugolino: distrugge ciò che ha creato. Così è stato con l’abbandono dei vari edifici religiosi che avevano composto il tessuto urbano cittadino tra il cinquecento e il settecento. Così è stato per la distruzione della vecchia Piazza Porcari, del Teatro Sociale e ancora recentissimamente, nell’ultima parentesi ferragostiana per i resti del convento dei Frati minori passato poi ai Dandolo nel nascosto giardino di via Medaglie d’oro. Così sarà ormai per il Castello di Belforte, ridotto a un rudere. È la tecnica dell’abbandono dei siti storici. Si trascurano per decenni e alla fine, ridotti a ruderi, si cancellano. Tra l’indifferenza generale. Sempre. Poche e flebili le voci di protesta.
Ora, via il ponte-passerella, ci rimane per la Valle un’ultima speranza: che gli autori e i registi del nuovo PGT di Varese provvedano a riconvertire quella importante striscia di territorio recuperando, ristrutturando, restaurando i tanti valori colà esistenti.
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