Nella casa dei miei nonni si custodivano gli stivali (molto malconci) di un avo garibaldino. E sulla pietra del camino era incisa la data di nascita della casa: 1783. E mobili e suppellettili risalivano ad altre epoche, ricordavano altri tempi… Come quel cappellaccio che apparteneva al mio bisnonno e che si diceva fosse simile a quello indossato da Cavour…
Forse sbaglio, ma mi pare che a partire dagli Anni Sessanta si sia diffusa una gran frenesia di far piazza pulita del passato. Si sono svenduti mobili, quadri, arredi vari, piatti, bicchieri, lampadari… Si è fatta la fortuna dei rigattieri.
Tutto doveva essere nuovo. Di formica, possibilmente.
Fino ad allora le generazioni che si sono susseguite portavano con sé il passato nella pittura, nella porcellana, nella pietra e nel legno; noi lo gettiamo semplicemente via.
Il passato, anche recente, ci è semplicemente estraneo e indifferente.
Nessuna meraviglia che le nuove generazioni non abbiano alcun interesse per la storia: non la “sentono” più scorrere nelle vene in un flusso ideale che collega le generazioni.
Il passato è un magma ribollente e neanche tanto affascinante in cui Cesare e Mussolini possono anche essere intercambiabili.
Vale solo il “qui e ora”. Che già è diverso dopo un’ora.
Ma non è un problema solo italiano.
Qualche vecchio nostalgico che ai tempi aveva manifestato col “libretto rosso” in mano, ha provato a far due chiacchiere con qualcuno dei cinesi che ormai anche a Varese gestiscono bar e negozi.
Vaghissima la loro idea di Mao.
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