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Editoriale

IL RICHIAMO DI MEDJUGORIE

MASSIMO LODI - 25/11/2011

 

la Madonna di Medjugorie a Varese

Una grande folla, la meditazione, il pregare. Quest’anno come l’anno scorso. Il palasport di Masnago si riempie per la Madonna di Medjugorie. Migliaia di fedeli, molti che tornano dove già erano stati, non pochi che fanno per la prima volta la conoscenza del mistero mariano in uno scenario così singolare. C’è chi s’è recato più volte in Erzegovina, sul luogo delle apparizioni; e chi sta pensando d’andarci, convinto della ricchezza d’una tale esperienza. Ma c’è anche chi non appartiene a nessuna delle due categorie, è lì perché ve lo ha trasportato il richiamo del mistero. Della spiritualità. Della ricerca.

Circola la domanda individuale più ovvia, sulle gradinate e nel parquet attorno al palco delle testimonianze: che cosa vorresti chiedere alla Madonna? Circola la risposta collettiva meno prevista: dove abbiamo sbagliato e perché. Eccolo, il tormento che oggi ci scorta e mette in dubbio la capacità di riscatto dal disagio socio-economico: fatichiamo a capire dove sta l’errore. Siamo confusi al punto da parlare di società e di economia davanti alla Madonna, con naturalezza. Non dovremmo farlo? Ma perché non trasferire nella presenza collettiva d’un incontro di fede l’angoscia laica che ci ha preso e non se ne va? Perché non attribuire al sacro un ruolo d’accoglienza, di consolazione, di speranza anche a quello che, almeno all’apparenza, non rappresenta alcuna sacralità?

Un momento d’unione. Anche e soprattutto d’unione. Medjugorie rappresenta questo, agli occhi di ciascuno, fedele e non fedele. Cioè il bene comunitario, che ormai e spesso sembra sfuggirci, e riagguantarlo costituisce il miracolo vero. È come se Medjugorie riaccendesse una sensibilità popolare, intima e condivisa insieme; come se indicasse un appiglio allo scivolamento verso l’abisso; come se chiarisse il molto che appariva oscuro. Paradossalmente Medjugorie, così proiettata verso il cielo, riconduce a terra. Al realismo d’ogni giorno, all’umiltà necessaria a comprenderlo, all’ammissione dell’inadeguatezza individuale.

Ci vorrebbe un maggior numero d’occasioni eguali a quella che ha vissuto Varese nei giorni scorsi. In fondo, come scriveva il grande tragico greco Eschilo, il divino è senza sforzo, basta convincersi che non siamo noi a dover salire fino al cielo, ma è il cielo che ama chinarsi pietosamente su di noi. Dovremmo più spesso guardare in basso, anziché in alto, così da avere l’opportunità di conoscerlo per davvero.

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