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Opinioni

VASO DI COCCIO TRA DEMOCRAZIE E NO

VINCENZO CIARAFFA - 26/07/2013

D’Alema per le vie di Beirut nel 2006 con i rappresentanti di Hezbollah

Quando il direttore di RMFonline gli ha suggerito di preparare qualcosa sul rapporto che intercorre tra l’Italia e gli Stati non democratici, lo scrivente ha subito pensato che il tema fosse interessante, anche se fondato sull’indimostrato presupposto che l’Italia sia una democrazia. E, poi, per parlare di Stati non democratici bisognerebbe, di converso, conoscere quelli che democratici lo sono per davvero.

Solo che a impostare così il discorso si correva il rischio di avvitarsi in un circuito a spirale salvo che non ci si ponesse la madre di tutte le domande: che cos’è la democrazia? La definizione scolastica insegna che la democrazia è quella «… forma di governo in cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita direttamente o mediante rappresentanti liberamente eletti».

Come dire che la quintessenza di ogni democrazia è la facoltà che hanno i cittadini di poter liberamente scegliere tra più offerte politiche, ma se è così allora noi italiani stiamo inguaiati perché non abbiamo la facoltà neppure di cambiare canale televisivo durante gli stacchi pubblicitari e men che mai scegliere chi dovrà rappresentarci in Parlamento! Sono le segreterie dei partiti, infatti, che come fossimo scimmie ammaestrate ci indicano chi sono i votabili in tempi d’elezioni.

È in questo vulnus democratico una delle malattie che minano la già precaria salute della politica estera italiana perché, come sosteneva lo storico Fernando Manzotti, la nostra classe politica non ha saputo porre « …come premesse alla politica estera il peso delle esigenze collettive delle masse». Quelle masse, aggiungiamo noi, il cui consenso è indispensabile per dare forza all’azione della politica e che, invece, nel nostro Paese sono state sostanzialmente estromesse dai processi decisionali con artifizi che di democratico hanno davvero poco.

A riprova di questa scientifica estromissione, proponiamo un esempio: qualcuno ci interpellò prima di trascinarci per i capelli nella moneta unica europea? Sì, perché adesso possiamo anche girarla come vogliamo, ma resta pur sempre il fatto che quella scelta – politica ancor prima che economica – fu fatta senza consultare le masse, senza essere preceduta da uno straccio di dibattito interno e/o da un nerboruto negoziato con gli altri partner comunitari del modello di quello portato avanti dall’Inghilterra e da ogni suo premier, conservatore o laburista che fosse.

Peraltro, nel club delle maggiori potenze economiche ci siamo entrati dalla porta di servizio e, comunque, per noi in quel club vi sono soltanto posti in piedi perché, pur pagando la costosa quota associativa (otto miliardi di euro l’anno!) siamo gli ultimi tra i soci che contano qualcosa o, se credete, i primi tra quelli che non contano niente.

Quel che è peggio, è che i nostri governi non fanno nulla per cercare di contare di più, anzi, in fatto di politica estera fanno moltissimo per rassomigliare a un regime balcanico d’inizio Novecento.

 Ricordate la vicenda dei due marò ancora illegalmente detenuti in india e la planetaria figura di guano che fece il governo Monti quando, dopo un’impudica esibizione muscolare, riconsegnò i due nostri militari alle autorità indiane con la coda tra le gambe? Beh, per quanto sembrasse impossibile battere il nostro stesso record in materia di figuracce internazionali, col recente caso di Alma Shalabayeva, modestamente, abbiamo saputo fare peggio del governo Monti.

Il 31 maggio scorso, la suddetta signora e la figlioletta, entrambe congiunte di Mukhtar Ablyazov, un uomo politico e d’affari che in Kazakistan è ricercato per abuso d’ufficio e appropriazione di fondi statali, sono state prelevate dalla loro abitazione romana di Casal Palocco da poliziotti in assetto di guerra e, poi, imbarcate su di un aereo privato diretto in Kazakistan. In pratica esse sono state impacchettate e subito consegnate nelle mani del governo kazako che – a torto o a ragione – perseguita la loro famiglia e che, tra l’altro, non è proprio un modello da imitare in fatto di democrazia e rispetto dei diritti umani.

Non appena è diventata di dominio pubblico, la notizia di quel rimpatrio forzato ha suscitato un pandemonio: il governo ha annullato (platonicamente a quel punto…) l’ordine di espulsione, il Ministro degli Interni, e vicepremier, si è beccato una mozione di sfiducia da SEL e Movimento 5 Stelle e su tale mozione il governo ha corso il rischio di cadere in Parlamento. Sospettando chissà quali traccheggi, parecchi giornali non hanno creduto alle conclusioni cui è pervenuta la rapida indagine che è seguita al fattaccio, è cioè che, almeno fino a un certo punto, i reggitori dei due dicasteri veramente non sapevano niente degli accadimenti di Casal Palocco.

Una tale disconoscenza può meravigliare soltanto chi è fazioso o che, almeno ogni tanto, non vada a dare una scorsa alla storia del nostro Paese. Il 22 agosto del 1943, il generale Castellano, uno dei due militari di rango che il governo Badoglio aveva inviato segretamente a Lisbona per tentare d’incontrare i rappresentanti Alleati, allo scopo d’intavolare negoziati di pace, indirizzò due telegrammi al nostro Ministero degli Esteri per comunicare il riuscito abboccamento. Ebbene, voi non ci crederete, ma alcuni funzionari del Ministero archiviarono quei telegrammi con burocratica indifferenza, senza nulla chiedersi, nonostante fossimo nel bel mezzo di una guerra mondiale che, peraltro, per noi si metteva malissimo. Pertanto, siamo propensi a credere che, anche stavolta, il governo italiano abbia saputo con ritardo del brutale trattamento cui era stata sottoposta la signora kazaka.

E veniamo al nocciolo dell’argomento proposto circa «I rapporti diplomatici che l’Italia intrattiene con i Paesi non democratici». Al riguardo fu esemplificativa la passeggiata che, il 15 agosto del 2006, l’allora ministro degli esteri, D’Alema, fece per le vie di Beirut sottobraccio al rappresentante dei terroristi locali di Hezbollah.

A parte la sua inopportunità politica, quella passeggiata dimostrò che la nostra diplomazia non è pragmatica – come dovrebbero esserlo le diplomazie – ma ideologica. D’Alema in veste di ministro, infatti, prima di andare a fare quella passeggiata per le vie di Beirut, avrebbe dovuto domandarsi quanti scambi commerciali erano possibili tra l’Italia e i terroristi di Hezbollah, e quali quelli tra Italia e Israele che degli Hezbollah è acerrima nemica.

La diplomazia si nutre di “continuità” che è frutto di un lavorio a volte sotterraneo ma sempre di lungo respiro e, soprattutto, senza soluzione di continuità. Che continuità vi fu tra il governo di Massimo D’Alema che diede ospitalità al terrorista del PKK turco Abdullah Öcalan, e quello di Berlusconi, che mandò i nostri militari a combattere prima contro i terroristi iracheni e, poi, contro quelli dell’Afghanistan?

A questo bisogna aggiungere che i nostri ambasciatori, i nostri diplomatici in generale, hanno una pedissequa percezione burocratica del loro ruolo e faticano a rendersi conto che nei Paesi che li ospitano essi sono la punta avanzata della nostra politica, delle nostre imprese, della nostra finanza.

Ed è così che un corpo diplomatico di mediocre livello si ritrova a supportare una classe politica nazionale di livello ancora meno che mediocre cui, tra l’altro, importa poco la politica estera, assorbita com’è da una parossistica competizione interna.

I lettori ci scuseranno se, ancora una volta, citeremo un nostro attaché militare per dimostrare la fondatezza di alcune asserzioni ma essi devono sapere che nel corso di una lunga carriera militare chi scrive ha conosciuto parecchi di loro e talvolta vi ha anche lavorato assieme. Pochi anni fa, l’addetto militare presso l’ambasciata d’Italia a Islamabad, venuto a sapere che il governo pakistano, affamato di tecnologia occidentale, stava per assegnare ricche commesse a imprenditori esteri, chiese vanamente che dall’Italia arrivasse qualche capoccione politico seguito da una nutrita schiera d’imprenditori, fintanto che non si decise a mettersi personalmente in contatto con alcuni imprenditori italiani che subito accorsero in Pakistan. Insomma, per scimmiottare una bellissima poesia di Arnaldo Fusinato, potremmo scrivere che nel nostro corpo diplomatico l’assenteismo infuria/la diplomazia manca/sul business sventola bandiera bianca… .

Con presupposti così poco omogenei è chiaro che i rapporti dell’Italia con gli Stati non democratici non sono regolati da una precisa direttiva politica e che, invece, tutto dipenda dal colore delle forze politiche che governano il Paese.

Dalla fine della II Guerra mondiale agli anni Sessanta, l’Italia intrattenne rapporti alla luce del sole con le dittature di Spagna, Portogallo e di alcuni Paesi dell’America Latina, un po’ perché questi compravano i nostro prodotti (eravamo in pieno boom economico), un po’ perché erano amici degli Usa con i quali eravamo legati a filo doppio, mentre snobbavamo i Paesi del terzo mondo, non meno antidemocratici dei primi, soltanto perché filosovietici. Sicché, quando con la caduta del muro di Berlino implose la politica dei blocchi contrapposti, ci ritrovammo col popò scoperto perché gli americani non erano più interessati a noi, stante che il nostro Paese per loro aveva perso l’importanza strategica che aveva al tempo della “guerra fredda”, mentre la Russia post-sovietica continuava a investire sul terzo mondo, specialmente nel commercio di armi.

In un avvicendarsi di Stati “quasi” democratici nati a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, di Stati democratici, e di quelli non democratici, per dirla alla nostra maniera…, un sano pragmatismo della politica e della diplomazia avrebbe fatto la differenza perché ci avrebbe aiutato a capire che l’asse degli equilibri economici e politici mondiali ruota ormai intorno alla troika Russia-Cina-India, Paesi che non potremmo definire democratici al 100% ma che hanno un Pil costantemente a due cifre.

Sacrificare tutto alla realpolitik? E quale altra possibilità ha una nazione inesistente sul piano militare, debole su quello economico, una barzelletta sul piano politico? Tra l’altro, appiattirsi sull’Unione Europea (che è la malattia di cui soffre la nostra economia, non certo la sua cura) non ci porterà da nessuna parte perché sia l’Unione Europea, sia la Nato sono creature partorite dalla “guerra fredda” e, come il Patto di Varsavia, non hanno più ragione di esistere. Salvo che non decidano di sottoporsi a un severo restyling.

Nel frattempo, e ritorniamo da dove eravamo partiti, non possiamo permetterci di stilare un elenco dei buoni e dei cattivi, di Stati democratici e di quelli non democratici, perché se vogliamo sopravvivere nell’economia tripolare che sarà, abbiamo l’assoluta necessità di fare affari con tutti, sul modello della vicina Svizzera. Perché – come sosteneva l’imperatore romano Vespasiano – «Pecunia non olet».

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