Furono la disponibilità e il coraggio di un giovane prete, parroco a Courmayeur, ma allora si doveva dire Cormaiore, a salvare la vita al piccolo Giulio Segre, otto anni, figlio di padre ebreo, un odontotecnico di Saluzzo.
La fuga precipitosa, sempre rimandata, della famigliola di Giulio verso la montagna avvenne nel 1943 – era il 2 dicembre -dopo il devastante bombardamento di Torino, prima in un treno stipato, poi a bordo di una corriera carica di gente schiacciata dalla paura. E si concluse, dopo un rischioso controllo affidato a un pietoso carabiniere, col salvifico arrivo presso la parrocchia dell’allora trentunenne don Cirillo Perron.
Abituato a nascondere i perseguitati, senza fare differenze tra amici e nemici, verificata la credibilità di quegli ultimi ospiti giunti senz’alcuna credenziale di affidabilità – i tranelli erano all’ordine del giorno – don Cirillo trovò la soluzione per salvare la vita al biondino dagli occhi azzurri e ai suoi genitori. Giulio sarebbe diventato per tutti gli abitanti del posto un suo nipotino mandato in montagna per ragioni di salute. Alla madre di Giulio, Eugenia, don Cirillo chiese di tenersi lontana per alcuni mesi dal bambino, per non destare sospetti, e al papà Vittorio consigliò di recarsi a Milano, dov’era più facile nascondersi e trovare lavoro senza essere riconosciuti. Il piccolo ospite condivise da allora due anni della sua vita, fino all’estate del ’45, con il giovane sacerdote. Sarebbero stati anni segnati da paure e difficoltà, anche nella serena Cormaiore, da rappresaglie di soldati nemici e da lotte fratricide. Ma la nuova carta d’identità del bambino, approntata grazie al sacerdote da un coraggioso tipografo improvvisatosi stampatore di falsi documenti, lo identificava allora come Giulio Bigo. E quel bambino, rinato per l’amore di un sacerdote, ebbe anche giorni di pace, di giochi spensierati coi nuovi piccoli amici, di devozione serena nelle funzioni religiose a fianco dello “zio” prete.
A raccontare a distanza di tanti anni la vicenda è stato lo stesso protagonista, un dentista oggi nonno di nipoti ormai cresciuti. La narrazione, dedicata inizialmente a loro, poi apprezzata da molti estimatori, è stata quindi tradotta in libro (“Don Cirillo e il nipotino”) per i tipi della casa editrice Fusta di Cuneo .
Scritto col garbo e l’ accorta sensibilità di chi si rivolge a giovanissimi lettori, è forse paragonabile- per la ‘leggerezza’ dell’approccio a un tema così drammatico – alla indimenticabile prova registica di Benigni in “La vita è bella”.
Momento centrale dell’intera vicenda è l’incontro in chiesa di Giulio con un ufficiale tedesco che rivede in lui, per un’ impressionante somiglianza, il figlio Peter, morto in quello stesso anno a Salisburgo sotto i bombardamenti, insieme con la giovane mamma e sposa.
Di quel figlio è rimasto all’ufficiale solo un indizio, un giocattolo, una macchinina rossa che lui gli portò in dono durante una breve licenza e che ha ritrovata dopo un devastante sopralluogo tra le macerie, là dove era la casa di famiglia distrutta.
La voglia del soldato di rivedere il bambino, e in lui il proprio figlio, lo spinge a frequenti visite a casa del prete e segna in qualche modo la protezione dell’ufficiale nelle difficoltose vicende raccontate qui, che Courmayeur visse e soffrì sulla propria pelle.
Una pagina nobile di vita affiora dunque dal delicato volume di Giulio Segre, una delle tante di uomini coraggiosi. A scriverla fu il pretino di montagna don Cirillo Perron, poi onorato tra i Giusti. Che riuscì a conciliare pietà umana e fede cristiana con l’ orgoglio e la nobiltà di chi mai si arrende al male dell’ingiustizia.
Molti religiosi furono in prima fila durante la guerra e le persecuzioni razziali e politiche, aprendo le porte delle loro chiese e dei conventi. Don Cirillo poco parlò delle persone che gli dovevano la vita, furono semmai gli altri a ricordare nel tempo il suo coraggio. Lui semplicemente credeva nel suo compito di buon pastore che ha a cuore la salvezza del suo gregge: non solo dell’anima, ma anche del corpo. E che quando viene sera s’accerta che sia al sicuro, e al completo, nel recinto caldo dell’ovile.
Scrive nell’ introduzione Beppe Segre, fratello di Giulio nato nel dopoguerra e oggi presidente della comunità ebraica di Torino:
“La vicenda dolorosa e tragica della mia famiglia, prima umiliata dalle leggi razziali, poi costretta alla clandestinità e straziata dalla Shoa, è la stessa storia che hanno patito tutti gli ebrei italiani. Da Saluzzo sono stati deportati 30 ebrei, 22 originari della cittadina e 8 sfollati da Torino, solo una persona è tornata. Il mio ricordo va a nonno Moise, a nonna Emma, a ‘magna’ Adele, che non ho conosciuto e che vivono per me nel racconto di chi ha avuto modo di frequentarli e di volere loro bene. Ma nei giorni in cui le forze dell’ordine avevano l’obbligo di arrestare tutti i giudei e di confiscarne i beni nell’indifferenza dei più, ci fu chi ebbe il coraggio e la dignità di resistere.
Don Cirillo Perron mise in pratica il precetto biblico (Levitico,XIX,16).
‘Non assistere inerte al pericolo del tuo compagno’. Senza l’aiuto di Giusti come lui non saremmo in vita. Sia benedetto il suo ricordo”Don Cirillo Perron fu parroco di Courmayeur dal 1939 al 1989. Nato il 23 settembre del 1912 uscì dalla vita terrena il 2 ottobre 1996.
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