Da quando l’Italia e tutto il mezzogiorno europeo si avvitano nella crisi finanziaria ed economica più drammatica del dopoguerra, i media – radio e tv in particolare – hanno scoperto in massa l’informazione economica su vasta scala, non vi è giornale radio o tg in cui non vengano affastellate una sull’altra notizie di segno talvolta opposto provenienti dai mille uffici studi, centri di ricerca, osservatori, quasi sempre emanazioni di categorie e corporazioni che analizzano e sentenziano avendo come punto di riferimento il proprio ombelico produttivo. Di rado si ascoltano analisi capaci di guardare all’insieme dei problemi a medio e lungo termine.
Dalle tante – troppe – università disseminate lungo la penisola affiorano spessissimo economisti sconosciuti e apprendisti ricercatori che ci intrattengono fin dal primo mattino sullo spread, sulla stretta creditizia che soffoca le imprese, sulla crescente e drammatica, quella si, deindustrializzazione in atto da ben prima della crisi, sul faraonico debito pubblico che pesa su tutti noi come un giogo di marmo, sulla spesa pubblica improduttiva e via elencando. Proprio ascoltando questa litania di “mantra” auto flagellanti mi chiedo quanti di questi dottori della “scienza triste” sappiano in concreto come si è accumulato nel tempo il debito pubblico e mi è venuto in mente un esempio concreto, illuminante, emblematico che è ancora oggi è lì sotto gli occhi di tutti nella disperata e bellissima Calabria della Locride, a Saline Joniche, sulla Statale 106 lungo un mare da sogno.
È l’impianto della Liquichimica, una storia che inizia nel ’71, finanziato con soldi ministeriali per placare la rivolta mafioso fascista dei “boia chi molla” che per mesi tennero in ostaggio il territorio bloccando strade, ferrovie, traghetti. Dal cilindro della politica uscì il cosiddetto “pacchetto Colombo”, dal nome dell’allora presidente del Consiglio, il democristiano doroteo Emilio scomparso qualche mese fa. Sul tavolo furono messi qualcosa come milletrecento miliardi di lire dell’epoca, una cifra colossale che inondò la provincia reggina e stimolò gli appetiti delle ‘ndrine. Il grosso dell’investimento venne concentrato su uno stabilimento che doveva produrre bioproteine per mangimi animali e sul relativo porto per la movimentazione di tutti i prodotti liquidi necessari. Un’idea di Raffaele Ursini al tempo padrone della Liquigas. Subito dopo l’ultimazione degli impianti, nel ’73, dopo una limitata sperimentazione l’Istituto Superiore della Sanità ne proibì l’avvio poiché le bioproteine per alimentazione animale avrebbero potuto dispiegare effetti cancerogeni sull’intera catena alimentare in quanto frutto di sostanze derivanti dal petrolio. Una sentenza tombale, inappellabile, che segnò per sempre il destino della fabbrica mai decollata e posta in carico all’ENI negli anni ‘80 con tutti i dipendenti assunti in cassa integrazione, una cassa durata più di vent’anni (costo 2 miliardi di lire) giustificata con la necessità di garantire la manutenzione, peraltro disattesa, del gigantesco impianto, mentre il porto, per elementari errori di ingegneria idraulica, si insabbiava irrimediabilmente.
Quando per un reportage televisivo visitai la Liquichimica dentro uno scenario allucinante come un set cinematografico da “day after”, mi spiegarono che era servito solo per alcuni indisturbati sbarchi di partite di droga e tritolo della ‘Ndrangheta che in combutta con i clan catanesi di “Cosa nostra” aveva raso al suolo gli agrumeti – occupavano ottocentomila metri quadri di costa – effettuato gli scavi e tirato su i muri della fabbrica. Intanto sulla montagna calabrese, sul cupo inospitale Aspromonte fiorivano i sequestri di persona più crudeli, con ostaggi legati per mesi alla catena come maiali da ingrasso, ed esplodevano le faide tra i clan malavitosi storici dei Piromalli, dei Mammoliti e delle rispettive sotto cosche. Nell’impotenza delle forze di polizia e nella sostanziale disattenzione della politica più attenta ai serbatoi di voti delle cittadelle mafiose che all’ordine pubblico.
Oggi la ex Liquichimica è ancora lì sul litorale jonico, un enorme scheletro arrugginito di metallo e cemento, con la sua torre grigia alta centosettantaquattro metri e i serbatoi del gasolio alti venti sopra i quali volano morbide le cicogne, segno ancestrale di una natura che non si arrende alla malvagità ottusa degli uomini.
Una società svizzera, pure lei molto chiacchierata, ha ottenuto lo scorso anno dal governo Monti il via libera per il progetto di una centrale a carbone, carbone “pulito”, è ovvio, che notoriamente non esiste nonostante le più avanzate tecnologie di abbattimento dei fumi. Lo sostiene con forza il WWF che, dati alla mano, spiega come nella classifica dei trenta più inquinanti impianti a carbone europei – emettono tonnellate di CO2 – già figurino due centrali italiane, quella di Brindisi al nono posto e quella di Civitavecchia al quattordicesimo, tutte due di proprietà ENEL.
Tuttavia il disastro della Liquichimica non fermò la politica industriale delle “cattedrali nel deserto”, quattro anni più tardi fu infatti la volta del Centro siderurgico di Gioia Tauro, un altro colossale taglio di agrumeti e di oliveti, altri miliardi di vecchie lire gettati al vento quando già si profilava una crisi di sovrapproduzione senza ritorno dell’acciaio europeo, cinquantacinque morti ammazzati nella guerra tra le cosche solo per gli appalti degli sbancamenti iniziali. Poi la rinuncia al folle progetto, decenni di abbandono e infine la trasformazione in un grande porto container che funziona sì ma con le ipoteche mafiose sempre pendenti.
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