Il mistero della vita è questo: non dar conto della bizzarria, talvolta crudele, che l’informa. Rifiutare di farsi capire, nelle sue tragiche svolte. Non cedere alla tentazione di spiegarsi neppure (tantomeno) di fronte all’ingiustizia palese, al dolore che punge, alla disperazione cupa.
Il mistero della vita ha voluto per il suo archivio la storia di Laura Prati. Una storia semplice, lineare, coerente. Pochi e forti capisaldi: l’amore per la famiglia, il culto del dovere, il rispetto verso tutti, lo spirito di servizio alla comunità. Una sola debolezza: la resa agli umori del caso. Una debolezza inevitabile. L’inchino al fato è un obbligo, non una scelta. Il fato pretende, impone, ordina.
Che cosa abbiamo pensato di diverso da un pronunciamento del fato, sapendo della folle irruzione dell’ex vicecomandante dei vigili urbani, pistola in pugno, nell’ufficio municipale di Cardano al Campo? Che diversa spiegazione abbiamo dato al debordare omicida contro il sindaco – la sindaca, come lei amava definirsi – d’un astioso rancore? Dove, se non nel territorio della sventura, c’è venuto da pensare che risieda la complicanza d’un intervento chirurgico indirizzato a un epilogo favorevole?
Laura che se ne va, obbedendo all’indirizzo assegnatole dal fato, ci vede di lassù impietriti nello straniamento. Incapaci d’un gesto di ragionevole commiato. Senza una decente parola consolatoria. Dubbiosi (perfino) a proposito dell’attendibilità del reale, perché quello che è successo siamo indotti a collocarvelo al di fuori, lontano, lontanissimo, al confine con l’impossibile. È la mesta rinunzia a comprendere e a spiegare. La resa alla superiorità dell’irrazionale. La rassegnazione, infine, e lo sgomento, per quest’incrociarsi di fili esistenziali che arrivano a stringere il nodo della disgrazia.
Laura che se ne va, dolcemente lieve nell’abbandonare le grevità materiali, ci regala un’immagine esemplare: l’aver assolto l’impegno civico come se fosse una missione; l’essersi preoccupata, dopo l’agguato, più degli altri che di se stessa; l’aver rincuorato anziché inveito, rassicurato invece che lamentato, sperato pur nell’accostarsi dell’insperabilità.
Laura che se ne va, lasciando un vuoto istituzionale oltre che un abisso negli affetti familiari, racconta di quanto sia sbagliato il vezzo dei giudizi sommari sulla classe politica, della sbrigatività nel generalizzare populistico, della faciloneria nell’uniformare ciò che rappresenta infinite diversità.
Appassionate avventure pubbliche come la sua sono frequenti e silenziose, laboriose ed efficaci. Condotte con il senso dello Stato, pur se lo Stato talvolta fa dubitare che un così solerte impegno abbia per davvero senso. Sono marchiate da una cifra etica che il tempo e le vicissitudini non corrodono, e semmai consolidano, a testimonianza che la pratica, la difesa, la diffusione d’alcuni valori non è un esercizio vano, sterile, inutile.
Laura che se ne va, orgogliosa nel proporci in custodia un’eredità specchiata, è qualcuno e qualcosa che non se ne andrà più. Che non se ne va mai. Che resta tra di noi, e non solo perché i suoi organi restituiranno speranze perdute di salute. Vi resta idealmente, simboleggiando l’animo nobile di quelli che giudicano la vita non per gli sgarbi subìti, ma per le occasioni di perdono offerte.
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