Difficile immaginare la nostra cucina senza il riso.
Eppure un tempo il riso era un medicinale, costosissimo, venduto solo dagli speziali: i Romani lo conoscevano come medicinale. Non era un prodotto della nostra agricoltura ma veniva importato. Nel 1300 e nel 1400 compare nei libri di cucina, ma era cucinato per i grandi ricchi: papi, cardinali, re e principi. Non si diffuse come cultura agraria fino al XV secolo.
La diffusione in Italia può collocarsi verso la metà del Quattrocento. Nel 1465 esisteva un Commissario ducale ai risi del Lodigiano; nel 1475 Galeazzo Maria Sforza dona dodici sacchi di riso da semina al duca di Ferrara, non a caso il Ferrarese divenne una ottima zona di coltivazione.
Il Porta nel “Lament del Marchionn di gamb avert” ci narra l’invito che il protagonista fa, il giorno dopo averla conosciuta, alla sua bella, alla di lei madre e all’amico di quest’ultima a “… sevem… alla Commenda a prozionà el risott” (eravamo alla trattoria della Commenda a dividerci il risotto); a quei tempi il risotto era un classico all’apertura del pasto.
Cherubini nel suo dizionario ci tramanda, liricamente, la ricetta: “Soffritto che tu abbia nel burro alquanto midollo di manzo e una cipollina trita, vi metti il riso; un po’ abrostito ch’ei sia, tu lo inondi di buon brodo, indi lo regali di cervellata e di cacio lodigiano grattato; lo lasci così cuocere e beversi tutto il brodo, dopo di che lo ingialli con una preserella di Zafferano, e lo servi”. Successivamente elenca una trentina di piatti di riso con vari componenti e diversi modi di cottura, questa varietà evidenzia l’importanza di questo elemento nella cucina dell’epoca.
Altra ricetta riportata è quella del riso in cagnon “Riso cotto da prima in acqua insalata, colato e quindi condito con burro, aglio, acciughe, cacio, fungherelli, ecc.”.
Il nostro Speri così invita nel 1939 il cappellano del manicomio:
“Invid a Don Togn Ribon” (Capellan de l’Ospedaa di matt): Sicchè Don Togn, el magnom sto risott? / Da quand V’hoo ditt che nun semm pront a fall, / né a vôs, né in scritt m’hii responduu nagott! / Va ben che Vu siev pront a pasteggiall; / ma occor visamm in temp per mettes sott / cont i cinqu’ sentiment a manteccall: / minga assossenn al dent, minga trop cott, / moresin, che ‘l sia on gust a mastegal. / Avanti, donca: foeura sta sentenza! / L’è doman? Posdoman? Femmel savè; / se de nò Vee pœu a ris’c de restà senza; / perché, a parlann, pò dass, senza voré, / che per la gola perda la pascienza / e che ‘l faga e me ‘l magna per cunt mè!”.
Esaminando i più autorevoli volumi di cucina locale troviamo tra risotti, minestre di riso e piatti unici una cinquantina di ricette codificate.
Tra i piatti unici, oltre al classico risotto con ossobuco alla varesotta, vengono ricordati, abbinati al riso, il lavarello, il persico, le lumache, le rane, i gamberi di fiume e le anguilline del lago di Varese: tutti di difficile reperimento.
Risotti e minestre sono abbinate prevalentemente a verdure od ortaggi, ad esempio ris e mosc ( con il prezzemolo).
Nella cucina valcuviana troviamo alcune curiosità come il risotto con grappa e luganeghetta, il risotto del contrabbandiere con fegatini di gallina, il lussurioso risotto alla rustica con ben diciotto ingredienti.
Avendo stuzzicato l’appetito, spero che qualcuno possa presentarci qualche ricetta sconosciuta.
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