Il problema non è (solo) Calderoli che dà dell’orango alla Kyenge. Il problema è (soprattutto) l’individuazione del residuale elettorato leghista: preferibile quello di pancia o quello di testa? Di vecchio stile – stile si fa per dire – o di nuovo conio? Il problema appare, con evidenza, di strategia partitica e sorpassa in importanza la discussione su una battuta così miserevole da suscitare misericordia verso il battutista.
Il problema della Lega, qualora propensa a rivivere anziché a sopravvivere, è di diventare per davvero una Lega 2, riformata al punto da sembrare (da essere) rivoluzionaria. E per risolverlo -orientando idee e atteggiamenti – c’è bisogno delle ramazze bis, non bastano le scope che han fatto pulizia dentro il partito. La pulizia (la chiarezza nel non essere ambigui) si richiede fuori, quando s’incrocia la gente, se ne percepiscono le umoralità, s’avverte il sentire comune. Se viene fraintesa l’atmosfera sociale, travisato il respiro culturale, confuso il punto di sintesi tra pulsione popolare e programma politico, quale futuro aspetta un partito territoriale che intende darsi il profilo dell’autonomismo moderno e ambisce a copiare i conservatori bavaresi?
Ecco perché la calderolata non è liquidabile come un accidentale errore di forma sostanzialmente scusabile. La calderolata va oltre il moto di sciagurato sprezzo contro il diverso di pelle scura. È un giudizio preciso espresso a freddo invece che a caldo. È un’opzione tenace di percorso politico. È il tentativo di mantenere (di recuperare) il consenso che sfugge, rivolgendosi alla frangia più oltranzista dei potenziali simpatizzanti. Ma se una simile scelta poteva cinicamente pagare vent’anni fa, e forse dieci anni orsono, e magari fino a quando la globalizzazione era più arretrata e meno foriera di crisi, adesso non paga più. Annoverare le calderolate tra gli strumenti adatti alla raccolta del voto significa confondere un’epoca (un’era geologica) con un’altra; vuol dire indugiare nel compiacimento d’una presunta gloria identitaria ormai sorpassata; rappresenta la negazione del realismo, prima che del buonsenso, del buongusto, del buonvivere.
Il calderolismo è l’inseguimento d’una preda scappata dall’urna e ormai non raggiungibile correndole goffamente dietro. La preda ha ascoltato nuovi richiami, compreso quello di non ascoltarne nessuno. Volendola riacciuffare, bisogna rifiutarsi all’uso di trappole, e avere invece la pazienza d’adoperare l’arte del convincimento: vieni da me, i tempi sono cambiati, non deluderò le tue attese. O Maroni impone d’accantonare esche andate a male (altro che semplici “intemperanze”) oppure il proposito di riconquistare milioni di suffragi rimane un proclama, un astrattismo, una vaghezza. E manifesta perfino un che d’assurdo economico, contrapponendo alla teoria della macroregione nordista integrata da provenienze lavorative d’ogni Paese, gli sberleffi a un ministro di colore simboleggiante gl’immigrati che ci servono. Che servono all’Italia, specialmente al Nord dell’Italia, e che servono soprattutto alla Lega, convinta d’essere ancora la portavoce del Nord. Ma se la voce è questa – è quella d’un Calderoli – si annunziano prossimi e sventurati silenziamenti elettorali.
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