Fausta Finzi, Anna Maria Levi. Due signore ebree con storie diverse. Se ne sono andate in settimana, l’una a pochi giorni dall’altra. Il loro ricordo, in questa stagione di degrado politico e morale, va preservato. Scrivo conscio del vuoto che le circonda. È vero: la crisi finanziaria c’è assieme a quella economica. Ma esiste soprattutto quella culturale, la vera peste dell’ultimo ventennio sparsa a piene mani da un manipolo di sciagurati.
Fausta Finzi aveva novantatre anni, è morta a Vimercate. Sopravvisse a Ravensbruck, il “campo di sterminio delle donne”. Era stata una delle testimoni più attive della Shoah italiana, quella prodotta in casa, fatta proprio da noi, da prefetti, questori, podestà, delatori, nati e vissuti tra le nostre case, quelli che dopo l’8 settembre del ’43, esattamente settanta anni fa, consegnarono ai tedeschi, senza fare una piega, gli elenchi dei censimenti semiti del ’38 lasciati da Badoglio, per inscusabile errore, negli archivi della pubblica amministrazione.
Fausta, quando arrestarono il 22 aprile 1944 a Milano per primo il padre Edgardo Finzi, cinquantacinque anni, ferrarese, affrontò gli sgherri nazifascisti gridando loro: “Dove lo portate?”. Risposta: “In un bell’albergo!”. “Allora vengo anch’io” replicò Fausta, una signorina di ventiquattro anni, dal tratto minuto ma forte di carattere. Il padre, trasferito nel “campo di transito e di polizia” di Fossoli-Carpi, raggiunse Auschwitz “il bell’albergo” il 2 agosto. Il 6 fu gasato. Fausta, riservata, lontana dalle luci della ribalta, si salvò. Al rientro ritrovò la madre Giulia Robiati, ariana, di fede cattolica. Riprese la vita senza mai dimenticare.
Raccontò in due libri “Varcare la soglia” e “A riveder le stelle” la sua personale tragedia. Scrisse fra l’altro: “La mia vicenda era quella di tante altre persone e il dubbio di ripetere qualcosa di già noto a quelli che si interessavano dell’argomento mi ha sempre dissuaso dal provarci”. Ma, alfine, trovò la carica per varcare l’ostacolo solo psicologico.
Fausta, come Primo Levi e tanti altri, ebbe impressa nell’animo la memoria feroce della detenzione ma se si vuole in misura maggiore la disperata, massacrante marcia di otto giorni per duecento chilometri a ritroso verso il territorio russo dopo che l’Armata Rossa aveva liberato il suo campo. Un calvario, a piedi nudi, senza cibo, sotto le intemperie, nella solitudine di un inferno temperato unicamente dalla certezza che l’odissea comunque fosse finita.
Anna Maria Levi, la sorellina di Primo Levi, aveva un anno in meno di Fausta Finzi. Novantadue anni. Viveva a Roma da molti anni assieme a Julian Zimet, un ebreo americano che lavorava nel cinema. Rispetto all’autore di “Se questo è un uomo” nato nel 1919 e morto nel 1987, aveva due anni in meno. I due fratelli furono sempre molto legati da sincero affetto. Di carattere aperto, allegro, Anna Maria, secondo Ernesto Ferrero, studioso di Levi, “era una donna di una simpatia straordinaria, spiritosa ed estroversa, diversa da Primo, timido e riservato. Amava i suoi nipotini, aveva un forte legame con il fratello. La crescente fama di Primo, in ogni caso, era stata vissuta da lei con discrezione e riserbo”.
Era tornata a Torino nel 1997 per partecipare all’anteprima mondiale de “La tregua”, il film che Francesco Rosi aveva tratto dall’omonimo romanzo. Quella sera con Anna Maria c’erano i figli di Primo, Renzo e Lisetta. Fu un avvenimento memorabile, il progetto del film aveva soggiogato l’autore del romanzo autobiografico al punto da fargli dire che “l’idea che dal libro nasca un film, è una delle poche cose che in questi giorni mi dà un briciolo di felicità”.
Di recente Anna Maria era rimasta colpita dalle polemiche che avevano accompagnato l’uscita del libro di Sergio Luzzatto, “Partigia”, con il richiamo alla fucilazione dei due giovani partigiani del gruppo di Primo ad Amay-Frumy in Val d’Aosta, che aveva fatto dire al grande scrittore di un “ricordo opaco della Resistenza”.
Anna Maria a Torino in giovane età aveva orbitato nei circoli ebraico-azionisti di Emanuele Artom trucidato dai nazifascisti nella primavera del ’44. Anna Maria aveva accompagnato alla fine del ’43 il fratello in montagna, ma poi era tornata a Torino. Aveva operato nella lotta clandestina aiutando i “fratelli ebrei”. Chiusa la parentesi della guerra, si era dedicata alla letteratura seguendo per i lettori italiani e curandone le edizioni, l’attività di Leon Poliakov sul fenomeno dell’antisemitismo.
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