Nella ridda infernale che caratterizza il ritmo vorticoso della nostra esistenza, spesso spossessata d’opportune pause di tregua, di riflessione, di riappropriazione della coscienza, siamo soliti confondere la festa con una vacanza, un vuoto da riempire ad arbitrio privato libero dagli impegni lavorativi e dall’ansia, mentre invece si tratta di un tempo pieno, che la tradizione migliore vuole dedicato socialmente a una divinità o a un evento di socializzazione. Ne è come una rifondazione periodica. La rinuncia all’attività di conseguenza ci lascia soli con noi stessi, alla presenza imbarazzante di noi a noi stessi, spesso fonte di tedio o di un impegno dissipato.
Nel Decalogo il terzo comandamento, che vien fatto coincidere col sabato, tempo di riposo che suggella il culmine della creazione secondo Esodo 20 (motivazione cosmica), mentre in Deuteronomio 5 si configura come ricordo della liberazione dalla schiavitù, con un accento storico e sociale, è segno del patto tra Dio e l’uomo, interfaccia tra la divinità e il mondo. Non ha alcun riferimento alle stagioni, a differenza di Pesach (Pasqua), festa agraria di primavera, Shavu’òt, festa delle messi estive e della mietitura, Sukkot (capanne), festa dell’autunno e dell’ultimo raccolto (precarietà degli accampamenti), che al contempo si riconducono ad eventi storici. Rimanendo lo strato agrario sullo sfondo, l’ebraismo rabbinico sottolinea lo strato memoriale e storico.
La cadenza del sabato è del tutto autonoma dalle fasi lunari. Si differenzia dai pellegrinaggi, perché non ha un luogo di destinazione, vieta il viaggiare, non dipende dal luogo e dallo spazio, circoscrive anzi il luogo all’ambito familiare o comunitario. È sospensione dei fatti e del fare, liberazione dalle circostanze, proscrive trentanove tipi di lavoro.
Per Dio è un trascendere le opere, un riposare in se stesso, un ricondursi come puro essere alla pura potenza e infinita possibilità. Se si tratta di un Dio, che porta a buon fine la propria opera, vede però nel sabato il preludio a un’ulteriore elaborazione. Genesi 2, 3: “Elohîm benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso aveva cessato da tutta la sua opera, che Egli stesso aveva creato per poi elaborarla”: quod creavit Deus ut faceret (ripristino del senso originario del versetto col latino).
Da una chiusura a un’apertura. Il che significa fare esplodere il presente con tutte le sue rigide significazioni, oltre l’algida perfezione dell’immutabile, in una prospettiva essenzialmente profetica. E la festa risulta funzionale a un lavoro, che pare essere riuscita a sospendere. Così sentiamo il potere e il dovere al contempo di rendere nuovi tutti gli altri giorni. Così la festa del compimento diventa la creazione sempre rinnovata della vita (v. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Casale M. 1985, p. 335). Si tratta di una creazione avvenuta solo in vista della redenzione (ibid., p. 336). E la Domenica viene a santificare un altro evento, quello miracoloso della Resurrezione, di un corpo trasfigurato che è visione insostenibile per la vista umana.
Così il dì festivo non si riduce alla funzione meramente ancillare verso i bisogni e le necessità del dì feriale sopravveniente.
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