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Società

NON UCCIDERE

LIVIO GHIRINGHELLI - 28/06/2013

Quinto o sesto comandamento che dir si voglia nella formula catechistica che discende da Agostino e divenuta tradizionale nella Chiesa cattolica e nelle confessioni luterane, oppure sulla scorta di Deuteronomio 5, 6-21, il non uccidere non va riferito a una visione astorica, fondata su un universale astratto, precetto fuori dal tempo, non collocabile nel contesto dell’alleanza del Sinai. Con l’evoluzione dei tempi poi nella loro maturità, apparso Cristo, legge vivente e personale, le dieci parole divengono mirabile sintesi della dimensione al contempo universale e personale della vita morale e le dieci norme sono comprese e superate nell’ottica della carità. Caritas Deus est. Ama il tuo prossimo come te stesso.

Il comandamento si radica nella verità divina e si riconduce all’indisponibilità di ogni identità umana, che ha un valore assoluto, incondizionato, inviolabile agli occhi di Dio, specialmente pensando che l’uomo è un io-in-relazione con tutti i suoi simili e con la realtà intera. Se si vuole giustamente definire la persona umana, bisogna porre al centro questo suo essere in relazione. Non si può cosificare l’altro uomo, le persone non sono soltanto un oggetto su cui parlare e di cui disporre, bensì soggetti con cui parlare e da rispettare nell’insopprimibilità e unicità del volto dell’altro.

Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo, che riconduce la verticalità del comando divino al piano orizzontale dei volti umani e ha una visone escatologica della pace, sottolinea che prima dell’io c’è il volto dell’altro, il tu inteso come volto inerme, senza difesa; così il non uccidere diventa: tu non ucciderai mai. La lezione di Cristo si pone in questo orizzonte di senso. L’assolutezza della proibizione finisce così per escludere (utopisticamente, si può osservare) la pena capitale, la legittima difesa, la riforma del principio in tempo di guerra. Gli autori cristiani dei primi secoli radicalmente proclamavano il divieto per i cristiani di arruolarsi nell’esercito. Cipriano sarcasticamente: “Chiamano crimine l’omicidio quando è commesso dai singoli, virtù quando è la comunità politica a gestirlo”.

Di fronte a un Antico Testamento che ci parla di stragi e guerre in nome di Dio contro i nemici di Israele, di fronte all’ideologia guerresca del Deuteronomio, si osserva che è un Dio impotente quello che ha bisogno del sangue delle creature. Il carattere sacro della vita comunque è d’eredità ebraica. Solo che l’ebraismo contempla una potenziale immortalità del popolo di Israele, ben più che l’immortalità della vita individuale, mentre nella visione cristiana la vita terrena è sacra in quanto destinata all’eternità. Nell’ambito cristiano si sviluppano tre interpretazioni del problema: pacifismo radicale, possibilità di una guerra giusta (bellum iustum per Agostino, a segnalare i limiti contro gli eccessi; per Tommaso è ammessa una guerra dichiarata dalla pubblica autorità per una giusta causa – in primis la difesa – e finalizzata alla pace), crociata o guerra santa.

Hobbes sottolinea che la guerra corrisponde allo stato di natura secondo il concetto dell’homo homini lupus ed è un conflitto che si scatena da parte di tutti contro tutti, laddove Erasmo nel 1515 ha rilevato che la guerra è solo un’anomalia zoologica tipica della razza umana. Dall’Illuminismo in poi l’accento batte sull’autonomia del soggetto e sul diritto della persona a disporre di sé e della propria vita. L’etica viene fondata sulla razionalità del sé e sul principio di autodeterminazione. Comunque l’uomo è visto come depositario di una tensione e aspirazione alla qualità della vita, che non può coincidere ed oltrepassa i limiti della nuda vita.

Certo stupisce che nell’uomo l’homo sapiens e l’homo necans convivano e che lo condizioni l’aggressività costitutiva. L’uomo nasce guerriero in Grecia. Per Darwin la vita è lotta. E il protagonismo maschile vede sul fronte opposto la naturale vocazione della donna a non riconoscersi facilmente nella fenomenologia del guerriero. Famoso è il v. 523 della tragedia Antigone: “Io non nacqui per condividere odio, ma per condividere amore”.

Valgano a soccorrerci infine i moniti kantiani dell’opera Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf (Per la pace perpetua. Progetto filosofico – 1795): un trattato di pace non può valere come tale, se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra; gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto; nessuno Stato può intromettersi con violenza nella costituzione e nel governo di un altro Stato; nessuno Stato in guerra con un altro si può permettere ostilità tali da rendere necessariamente impossibile la reciproca fiducia in una pace futura; in ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana; il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati.

Quante tragedie si sarebbero potute evitare e non ci troveremmo perpetuamente sulla soglia di una deflagrazione dagli esiti semplicemente catastrofici!

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