Perché si starnutisce da svegli e non mentre si dorme? Perché gli sbadigli sono contagiosi? Perché chi ha le vertigini si sente attratto dal vuoto? Perché farsi il solletico da soli non funziona? Perché quando siamo in ritardo e ci allacciamo le scarpe si spezza una stringa? Perché le mucche fanno il latte bianco se l’erba che mangiano è verde? Perché lo specchio riflette la relazione destra-sinistra e non quella alto-basso? Perché il caso non ha memoria? Perché certe cose si rivelano compiutamente solo mentre accadono, non un attimo prima? Perché tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine? Perché, pur essendo irreversibilmente adulti, continuiamo a chiedere “perché”?
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Vado a trovare un amico che non vedo da tempo. Mi fa accomodare nel soggiorno e dice: “Scusa, torno subito”. Poco prima, al momento dell’incontro, ci siamo studiati con un sorriso di malcelato imbarazzo, scoprendo l’uno sul volto dell’altro i segni del tempo.
Quando ricompare sulla soglia ha un’espressione di serena pacatezza. Dietro di lui, nella penombra del corridoio, intravedo qualcosa di indefinito, una presenza dal movimento oscillante. “Si chiama Febo”, dice l’amico a voce bassa, senza voltarsi. “Ha sette anni, è mio figlio”.
Si fa avanti e io guardo il bambino nella tuta verde ramarro che lo segue con difficoltà sulle gambe storpiate dalla distrofia e sottili come canne palustri – una mano che stringe i pantaloni del padre, la testa piegata sulla spalla ossuta, lo sguardo obliquo che fissa un punto sulla parete senza battere le palpebre. Non ero preparato e continuo a guardarlo con straziante incredulità, finché mi rendo conto che devo respirare.
L’amico fa scorrere dolcemente la mano sul capo del bambino. “La sindrome di Rett è tremenda e progressiva. Mia moglie non ce l’ha fatta. Quando se n’è andata, un paio d’anni fa, l’ho portato in una di quelle strutture per minori gravemente disabili. Un giorno, quasi per caso, ho scoperto che due inservienti lo maltrattavano. Gli torcevano le dita, gli davano pizzicotti, gli chiudevano la bocca e il naso fingendo di soffocarlo. Febo ha un modo di piangere tutto suo. Dalla gola gli escono dei singulti strani, diciamo poco umani. Lo facevano per quello, si divertivano a sentirlo lamentarsi in quel modo”.
Dopo essermi ripreso mi trovo a pensare – forse una reazione emotiva, una difesa dall’intollerabile, non saprei cos’altro – che nel Grande Disordine ci dev’essere un’occulta armonia e che dal tumultuoso calderone niente è escluso, ogni contaminazione è eugenetica, ogni ipotesi accoglie senza opporsi la forma che le è destinata, anche la più stupefacente, come la variante al progetto Uomo accucciata lì davanti, il bimbo con la tuta verde inconsapevole di portare il nome di Febo, lo splendente Apollo, il glorioso dio della bellezza che sconfigge le tenebre.
L’amico guarda il figlio e con delicatezza asciuga il filo di saliva sfuggito dalla bocca semiaperta. “Prima tiravo avanti come tanti”, mormora ripiegando il fazzoletto, “senza riflettere sulle cose, assuefatto al continuo autoinganno, dicendomi che la vita non ha senso ma fingendo che ne abbia. Lui mi ha spezzato qualcosa dentro e mi ha salvato. Finché c’è lui, io non ho paura di niente”.
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“Mai sottovalutare la capacità di un uomo di sottovalutare una donna” (Kathleen Turner nel film Detective coi tacchi a spillo, USA 1991).
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