Ci si affaccia alla porta centrale, quella del tipo che si apre, sbatte e si richiude senza fare rumore, in un chiarore intenso sullo sfondo di pareti azzurrognole e, di primo acchito, si ha l’impressione di trovarsi in un reparto qualsiasi di un ospedale qualsiasi. Moderno, s’intende. Uno studio per il medico, tre sale per i pazienti, quattro infermiere professionali, un gruppo di volontari a rotazione, uno spazio per il day hospital, un punto prelievo, un numero verde per stabilire il contatto (800.520051, dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 12), una rete di collegamenti con i reparti interni più avanzati.
Ma non è così. Questo non è un reparto qualsiasi. È un reparto particolare, unico del suo genere del nuovo Ospedale di Circolo di Varese, un gigante che sembra arrancare col peso delle sue strutture concentrate in un spazio molto ristretto in quel parco Tamagno un tempo trionfo del verde e oggi del cemento.
Il reparto “diverso” è alle spalle della hall d’entrata, a due passi dal Pronto Soccorso. Rappresenta un’isola felice in questi tempi di crisi, non solo economica, ma di valori portanti, la solidarietà, l’aiuto concreto, il sacrificio, il rigore professionale, la capacità di misurarsi con delicatezza con chi non ha la necessaria capacità per potersi esprimere.
Un nuovo modello di accoglienza e di assistenza a favore di persone con gravi disabilità intellettive, neuromotorie e comunicative, di chi in fondo ha più bisogno, dei più deboli, di quelle persone che, sino a pochissimi anni fa, erano alla mercè della sorte e troppo spesso abbandonate.
Il progetto ha un nome giocoso, “Dama”, l’acronimo di “Disabled Advanced Medical Assistance”, che tradotto vuol dire “Accoglienza medica avanzata per disabili”. E’ il servizio sanitario per quei poveri cristi, uomini e donne, anche in giovane età, che da soli e coi loro infelici familiari non saprebbero altrimenti come muoversi, dove sbattere la testa, come trovare una risposta ai loro malanni che si abbattono per un’insopportabile maledizione sui loro fragili corpi.
Da dicembre il “Dama”, fiore all’occhiello della Regione Lombardia – che da anni ne aveva delineato il percorso all’interno del Piano socio-sanitario generale – e dell’Ospedale di Varese che, affiancato da due colossi del Volontariato, la Fondazione Piatti e/o ANFASS (Assistenza famiglie disabili), già presente con strutture per disabili in città e in provincia e il Circolo della Bontà, ne aveva con i direttori generali Walter Bergamaschi, il successore Callisto Bravi e il direttore medico Andrea Larghi, caldeggiato un progetto di fattibilità e sostenuto il varo, funziona a pieno regime.
Il Dama doveva rappresentare, nelle aspirazioni dei maggiori responsabili ospedalieri varesini, un approdo da raggiungere a tutti i costi. Lo è diventato, una volta verificate le condizioni operative (presenza di un Pronto Soccorso avanzato, di una Terapia Intensiva, dell’intero arco delle specializzazioni medico-chirurgiche, della Radiologia, della Tac) e l’individuazione da parte della Asl, con una fondamentale azione sul territorio, di una struttura dove essere ospitata.
Il nuovo servizio ospedaliero riceve ogni giorno in media cinque-sei pazienti affetti da patologie neuromotorie per poi affrontare il lungo, impegnativo tragitto diagnostico-terapeutico.
Il dottor Mario Diurni, 65 anni, laziale di nascita, emiliano di nozze, varesino d’adozione, un’esemplare carriera di chirurgo durata quarant’anni al “Circolo” di Varese, esperienze specialistiche in America, medico nella martoriata Uganda, volontario dell’UNITALSI, da dicembre, sei mesi esatti, è il “pilota”, di questo progetto di cui, una volta ottenuto l’incarico di occuparsene a seguito di pubblico concorso, ha studiato a tavolino ogni aspetto organizzativo.
“Vede – dice il dottor Diurni cogliendo il senso più profondo della straordinaria esperienza – con questo servizio vengono garantiti i fondamentali diritti costituzionali del cittadino a cominciare dall’articolo 32 della Carta in cui è sancito che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Non solo: esso rispecchia il messaggio solidaristico espresso anche dalle Nazioni Unite”.
Questi primi mesi di lavoro, intenso e difficile, stanno dando i loro primi significativi frutti. “E’ una sfida quotidiana – sostiene Diurni, un lampo di luce che ne illumina il volto – giocata sul filo della pazienza, del rispetto, della vicinanza affettiva. Il malato, dopo una fase di comprensibile difficoltà, gradatamente si adatta, ci aiuta. Abbiano positivi riscontri”.
Dal cuore dell’Ospedale, struttura molto complessa, la collaborazione con questo servizio altrettanto delicato, è puntuale. “La macchina funziona bene, siamo soddisfatti”, conferma Diurni.
Questa del Dama é una storia speciale. Molti hanno colto appieno la filosofia del progetto che debuttò in Lombardia tredici anni fa all’Ospedale San Paolo di Milano proprio nel settore della chirurgia per l’intuizione, il contributo, la sollecitazione di Edoardo Cernuschi, fondatore della LEDHA, la Lega per i diritti delle persone con handicap e dei loro congiunti costretti nelle elefantiache strutture di un ospedale.
Qui tutto appare ben congegnato. Il contatto – attraverso il numero verde, da parte della famiglia o dell’Istituto in cui il paziente è ospitato o del medico di base – permette il primo passo fondamentale. È il momento per vagliare il “caso”. Una volta che il malato sia giunto al Dama, l’esplorazione si arricchisce definendosi con gli appuntamenti per i necessari esami, utilizzando canali interni privilegiati che ci alleviano il lavoro.
Al dottor Diurni preme sottolineare un aspetto e, con lui, alle infermiere Rita Montalbetti (la coordinatrice), Elvira Sicuro, Antonella Bafaro, Silvana Tettamanti: “due sono i momenti autonomi ma nello stesso tempo strettamente connessi del nostro servizio. Il prendersi cura e il curare. Una cosa è allertare, stimolare come atto d’accesso, anche presso i familiari e gli accompagnatori, senza schemi prefissati, la nostra attenzione sul paziente, capire, valutare a fondo, “valorizzarne” la personalità. Poi, dopo questa fase propedeutica, si passa alla diagnosi e alla terapia che seguono degli schemi obbligati. I pazienti, e di questo sono profondamente convinto, pure difficili da affrontare, segnati come sono dal male e dalle difficoltà della comunicazione, capiscono, reagiscono, familiarizzano. C’è qualcuno che addirittura riesce a chiamarmi per nome, Maio, Maio, Maio. Occorre sapere ascoltare e, soprattutto, non avere fretta. Quando ci si avvicina ad un disabile grave è necessario partire dalla sua persona, rispettarla, afferrarne il più possibile le tensioni ed i sentimenti. Il paziente deve sentirsi a suo agio, non temere né insidie né inganni”.
(La fotografia è di Giacomo Miglierina, tratta da “Lisdha News”, Anno XXI, n. 77, aprile-giugno 2013. Da sinistra Rita Montalbetti, Elvira Sicuro, il dottor Mario Diurni, Antonella Bafaro, Silvana Tettamanti)
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