“La visita fu “coscienziosa”. Il dottore palpò l’ingegnere a lungo, e anche a due mani, come a strizzarne fuori le budella: pareva una lavandaia inferocita sui panni, alla riva d’un goriello; poi, mollate le trippe, l’ascoltò un po’ per tutto, saltellando in qua e in là, con il capo e cioè con l’orecchio, pungendolo e vellicandolo con la barba. Poi gli mise lo stetoscopio sul cuore e sugli apici: per gli apici, sia davanti che dietro. Alternò l’auscultazione con la percussione digitale e digito-digitale, tanto i bronchi e i polmoni che, di nuovo, il ventre. Gli diceva: “Si volti”: e di nuovo: “Si rivolti”. Nell’ascoltarlo dalla schiena quando era seduto sul letto e tutto inchinato in avanti, con il gonfio e le pieghe del ventre in mezzo ai femori, a crepapancia, e tra i ginocchi la faccia, la camicia arrovesciata al di sopra il capo come da un colpo di vento, oppure sdraiato bocconi, mezzo di sbieco, mutande e pantaloni senza più nesso, allora il dottore aveva l’aria di comunicargli per telefono i suoi desiderata; gli fece dire parecchie volte trentatré, trentatré; ancora trentatré. All’enunciare il qual numero l’ingegnere si prestò di buona grazia col viso tra i ginocchi. Con questo, la visita ebbe termine.
Un sottile filo rosso lega questo brano tratto da “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda (in occasione del recente anniversario dei quarant’anni dalla sua morte mi piace ricordarlo citandolo, anche per continuare ad apprezzare la sua lingua inarrivabile) ad un articolo scritto sul Corriere della Sera nel gennaio scorso da Giuliano Zincone a proposito del tumore polmonare che purtroppo lo ha vinto pochi giorni fa: raccontando (secondo quanto prometteva il titolo del suo articolo) con ironia e distacco la vicenda della sua malattia, in un passo significativo scriveva: “Mammamia, quanti tubi e tubicini. Pure nel naso, come nei telefilm, e spuntano dappertutto. Ho parlato con l’onorevole Vastaso, che è un chirurgo famosissimo. Dice che devi lottare ancora per qualche giorno, poi basta». Basta. In che senso? Questa storia della lotta mi ha sempre fatto schifo. Io non lotto per niente. Mi becco iniezioni, flebo, pasticche e ossigeno senza reagire, altro che lotta. Lividi sulle braccia e sulla pancia, viola e poi neri, vene tumefatte. Asfissia, affanno, cinquanta sfumature di malanni”.
Il sottile filo rosso è fatto di quel senso di passività, di nessuna partecipazione alla cura che accomuna i due protagonisti, che soggiacciono alla manipolazione, alla forza indifferente dell’atto medico, come due mondi separati eppure così a contatto con l’altro. Non so se questo sia il solito frutto malsano dei nostri tempi (i nostri tempi, da sempre, sono i veri colpevoli dei guai che ci affliggono) o degli Ospedali “Aziende”, di cui si legge soprattutto la difficoltà di far quadrare la ragioneria dei letti e del personale, le rincorse verso il mito della qualità o gli inciampi della malasanità, code, tempi d’attesa, o attese senza tempo in cunicoli e corridoi: ma da tutto questo spesso deriva stanchezza, tentazione di adeguarsi ad una meccanica dell’assistenza che si dipana tra turni e riposi, tra competenze e certificati di qualità, e questo accomuna con sorpresa medici, infermieri, tecnici, malati, tutti.
La cura c’è, anche per chi non ha le leve o le capacità per risolvere i massimi sistemi, è concentrarsi sul privilegio di avere accesso al santuario di un corpo che non è il nostro, con il rispetto che crea un rapporto, non manipolazione, non passività; incuranti di tutto quello che c’è attorno. Concentrati solo sul vero oggetto di questo lavoro. Può sembrare miopia, mulini a vento, visione piccina del problema, ma la stanchezza, la fatica e la delusione si curano solo con altrettanta fatica, la fatica della cura che guarda solo al primo, più importante impulso che l’ha generata. Sono parole finte, noiose, stupide, inutili per risolvere anche uno solo dei nostri molti problemi? Può darsi, ma tre notti fa c’erano in una camera del nostro Ospedale quattro persone che hanno “lavorato” sodo per tirar fuori dai guai una donna in coma e alla fine, risolta la crisi, dai loro sguardi si capiva perfettamente che avevano ben presente il vero motivo per cui erano lì. Nessuno si accontentava o era preda di una favola, il realismo amaro e difficile del quotidiano era stato solo messo da parte, ma in quel momento avevano tutto quello che serviva.
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