Due documenti ingialliti dal tempo escono dal mio archivio. Mettono i brividi. Sono l’anticamera di una tragica storia. Il primo è datato 25 ottobre 1943. L’altro 26 febbraio 1944. La Questura repubblicana di Varese per iniziativa del questore Antonio Solinas trasmette “al signor capitano Werner Knop, comandante il Nucleo Guardia Doganale di Varese, via Solferino 6” e “al Comando Polizia Germanica, Cernobbio, Como, Villa Carminati” due elenchi di nomi di cittadini ebrei residenti in provincia di Varese. È la Shoah italiana.
L’occupazione nazifascista è in pieno svolgimento e occorre stringere i tempi. Arrestare, razziare, deportare.
Il primo elenco comprende 76 nomi di “ebrei italiani”, 11 di “ebrei stranieri”, 5 di “ebrei apolidi” 61 di “ebrei senza indicazioni”. In tutto 153 ebrei abitanti a Varese, Gallarate, Busto Arsizio, Saronno e in altri Comuni del territorio; il secondo elenco 198 nomi, compresi quelli di alcuni già arrestati e di altri fuggiti in Svizzera.
In entrambi i documenti è indicato il nome di Elsa Pokorny, nata il 5 ottobre 1878 a Vienna, figlia dei fu Adolfo e Regina Verther, residente a Sesto Calende.
Scrivo di questa signora di 65 anni perché la donna fu trovata morta suicida il 17 dicembre 1943 a Brusson in Valle d’Aosta luogo dove era tornata dopo una breve vacanza estiva con la figlia e due nipotine nell’abitazione di Cecilé Revile, una valligiana, titolare di una trattoria. L’idea della fuggiasca era, al momento opportuno, di passare la frontiera e porsi in salvo.
La donna era vedova dal 1932 di Leopold Amster, un avvocato di origine ucraina. Quando avesse raggiunto da Sesto Calende la Valle d’Aosta, con chi e con che mezzi, non è dato sapere. Forse, è ipotizzabile, sull’onda delle notizie delle stragi della Granadier Panzer Division “Adolf Hitler” sul lago Maggiore fra Arona e Meina della metà di settembre 1943.
Sarebbe una normale vicenda, nella sua tragicità, fra quelle di migliaia di ebrei in fuga (in Svizzera ripararono circa 6-7 mila ebrei sui 44 mila presenti in Italia) se la morte di Elsa Pokorny, non fosse stata resa pubblica da don Adolphe Barmaverain, arciprete di Brusson, in un libretto intitolato “Petite Chronique” oggi introvabile pubblicato nel 1970 e ignorato dai più. Il prete aveva rivelato pur con quale “si dice” che Elsa Polkorny (indicata erroneamente in questo modo) venne rinvenuta cadavere il 17 dicembre nell’abitazione della Revile e che si era tolta la vita “per le vessazioni e le minacce di due partigiani” successivamente giustiziati per ordine dei loro capi. I due fucilati erano i diciassettenni Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano che la Resistenza avrebbe poi celebrato fra i propri caduti!
La storia a questo punto si tinge di “giallo” perché introduce di prepotenza la figura di Primo Levi e delle sua piccola banda partigiana in via di costituzione, rastrellata in quella prima metà di dicembre con un’altra molto più numerosa ad Arcesaz. Levi, arrestato come ebreo e non come partigiano (avendo lui denunciato la sua appartenenza razziale) con due giovani amiche, Lucia Nissim e Vanda Maestro (la seconda deceduta nel lager), una volta reduce nel 1945 da Auschwitz, ebbe sempre a sfumare il suo ricordo sulla breve esperienza partigiana definendola “stagione opaca” contrassegnata da “un segreto brutto”. In una breve poesia del 1952 pubblicata nel 1984 Levi aveva ammesso come i compagni giustiziati si fossero macchiati di una “non lieve colpa” e, ancora, nel libro “Il sistema periodico” del 1975 aveva chiarito come la doppia esecuzione fu una sorta di atto dovuto “costretti dalla nostra coscienza”.
I recenti libri di Sergio Luzzatto “Partigia” e, quello immediatamente precedente, di Frediano Sessi “Il lungo viaggio di Primo Levi. Una storia taciuta” hanno cercato di dare corpo a quelle ombre provocando una furiosa polemica interpretativa con l’intervento anche dei fratelli del povero Zabaldano, uno dei fucilati da “fuoco amico”.
Perché dunque “stagione opaca” e “segreto brutto”? Per quale ragione da parte di Levi metterci un rigo sopra? Un punto è certo: la fucilazione dei due giovanissimi partigiani aveva segnato un limite insopportabile. Levi, non si sa se presente al fatto (ma è possibile) stante il territorio limitato in cui la banda era sistemata (l’Albergo Ristoro di Amay, un villaggio sopra Saint Vincent), aveva portato dentro di sé un peso insopportabile al punto di tacerne la verità.
Ora il “giallo” è aperto: accertate le fucilazioni, per quale ragione furono decise? Le ragioni sono duplici e distanti. Dall’una, alcuni presunti furti compiuti dai due giovani. Episodi volgari, spiegabili con le necessità di guerra ma non sopportabili per l’immagine della banda e della sua credibilità verso la popolazione. Dovevano essere puniti per dare un esempio. I familiari di Zabaldano respingono sdegnati l’ipotesi.
L’altra è più complessa (vessazioni alla anziana signora ebrea per estorcerle denaro o preziosi) con nella progressione della vicenda qualche frattura temporale. Se Elsa Pokorny fu trovata morta suicida il 17 dicembre in casa Revile mentre i due partigiani furono uccisi il 9 dicembre, quale nesso può esistere fra i due fatti? I presunti responsabili pagarono con la vita quattro giorni prima che la donna morisse? O il ritrovamento del cadavere avvenne con qualche giorno di ritardo dal momento esatto della morte?
Al professor Gian Carlo Pavetto, un cattedratico torinese che nel ’43 era un bimbo di otto anni, figlio del medico condotto di Brusson, si deve la scoperta del “caso Pokorny”. Conosceva il libretto dell’arciprete di Brusson e ha rilanciato quella interpretazione. È del parere che Oppezzo e Zabaldano furono fucilati non per “futili motivi” (furti) ma per ragioni molto più solide e inconfessabili. Non lo dice, ma pensa che i partigiani avessero messo nel loro mirino la signora ebrea “che reagendo avrebbe minacciato di denunciarli”.
Sullo sfondo di questa misteriosa vicenda che ha il potere di rivelare la contraddittorietà e la complessità della Resistenza (tesi da me sostenuta da decenni a fronte delle Associazioni reducistiche, ANPI compresa), non mito inviolabile e incrollabile ma severa esperienza di vita con tutti i suoi limiti esistenziali, ha preso corpo uno “scontro” fra il professor Alberto Cavaglion, uno dei maggiori studiosi della deportazione, cattedra all’Università di Firenze e lo scrittore Sergio Luzzatto. Il primo crede alla tesi del suicidio e alla morte dei partigiani rei di aver colpito la fragilità di Elsa Pokorny. Luzzato è di parere contrario.
Una nota per finire che, secondo il mio parere ma potrei sbagliarmi, non dovrebbe aggiungere “giallo” al “giallo”: il rapporto del 26 febbraio 1944 della Questura di Varese inviato ai tedeschi segnalava Elsa Pokorny ancora residente a Sesto Calende. Un errore marchiano della burocrazia di Salò o, a due mesi dalla morte presunta (17 dicembre 1943) la donna era ancora in vita? La parola definitiva sulla data e il motivo della scomparsa potrebbe venire dal certificato di morte redatto a suo tempo dal dottor Andrea Pavetto. Ma il documento allo stato è introvabile. Andrò in Val d’Aosta sperando di trovare nuove tracce.
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