Non è colpa (o lo è solo in piccola parte) delle misure di austerità varate nell’anno trascorso se l’Italia è in una fase di recessione. Sulla grave situazione del Paese hanno inciso molteplici cause che non dipendono dalle recenti scelte governative; anzi le misure di rigore erano indispensabili per impedire all’Italia di cadere in “default” e il governo Monti è stato costretto a puntare più sull’aumento delle tasse che sul taglio della spesa pubblica perché la situazione era davvero molto seria. Il colpo è stato percepito come più grave di quel che in realtà fosse (si è ripristinata la tassa sulla prima casa che già c’era e si è alzata l’età pensionabile perché la vita media è più lunga) a causa dei problemi irrisolti che si sono accumulati da troppo tempo.
Nel discorso annuale pronunciato dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, l’analisi della nostra situazione è stata esauriente ma impietosa: le riforme da troppo tempo enunciate e mai attuate hanno allungato la distanza tra l’Italia e i partner europei; eravamo ai primi posti nella graduatoria della crescita negli anni cinquanta e sessanta e ora siamo il fanalino di coda dell’Europa. Il governatore non ha fatto sconti a nessuno. Non è stato “politicamente corretto” come quasi tutti i suoi predecessori ma ha messo il Paese di fronte alla realtà: della politica anzitutto che non è stata capace o non ha voluto mediare tra gli interessi dei singoli e quelli della collettività; della burocrazia dei grandi dirigenti pubblici che ha frenato il processo di ammodernamento (ci vogliono centinaia di regolamenti per attuare una legge e in queste settimane la Gazzetta Ufficiale pubblica i decreti attuativi di Leggi approvate dal primo governo Prodi … il secolo scorso!); delle imprese che non hanno investiti i profitti conseguiti negli anni buoni nella ricerca, nell’innovazione e nei processi di aumento della produttività e li hanno dirottati verso l’ economia finanziaria.
C’è stata una vasta corresponsabilità per il ritardo competitivo accumulato dall’Italia da venticinque anni a questa parte. Il nostro Paese non cresce da un quarto di secolo perché le sue classi dirigenti non hanno capito che la crescita, alla lunga, si basa sulla qualità delle nostre istituzioni, a cominciare dalla scuola, dalla burocrazia, alla amministrazione della giustizia (ci vogliono anni per vedere la fine di qualsiasi causa civile o penale). Le riforme non possono essere improvvisate, richiedono tempo e impegno e non sono compatibili con un’opinione pubblica che offre e ritira il suo consenso alle forze politiche ad ogni tornata elettorale.
Senza programmazione l’Italia ha consumato, negli ultimi anni, più di quanto produceva; non si è tagliata la spesa improduttiva e invece di investire per accrescere la competitività del sistema si sono disperse risorse con la spesa a pioggia delle Regioni e degli enti locali che non vanno esenti da responsabilità. La nostra imprenditoria, dopo gli anni del miracolo economico, partiva da posizioni di eccellenza e da condizioni favorevoli per la disponibilità della forza lavoro a buon prezzo ma ha sprecato tutte le occasioni a cominciare dal vantaggio conseguito con l’ingresso nel sistema monetario europeo che ci ha spalancato i mercati della comunità. Invece di assumersi le proprie responsabilità e di investire nel processo produttivo e nel prodotto, la nostra imprenditoria preferisce lamentarsi e invocare gli aiuti statali che, in questa fase, sono certamente utili ma che da soli non bastano se non sono sostenuti dalla politica di credito alle imprese e dal senso di responsabilità delle forse politiche e sindacali; invece si preferisce diminuire l’IMU, che non ha alcuna influenza sul lavoro, invece che attuare sgravi fiscali per le imprese e i lavoratori dipendenti.
Anche i cittadini non sono innocenti, hanno pensato, a torto, che i loro legittimi interessi potessero essere difesi ignorando le condizioni del sistema che vede una larghissima evasione fiscale (gli imprenditori denunciano spesso un reddito nettamente inferiore a quello dei loro dipendenti). Eppure le possibilità di ripresa sono da ricercarsi nella lotta agli sprechi della spesa pubblica e nel recupero fiscale; solo cosi si possono diminuire le tasse, odiose ma necessarie per realizzare un minimo di perequazione e di giustizia attraverso il mantenimento ed il potenziamento dello Stato di sicurezza sociale. Non si cambia il Paese nei primi cento giorni di governo; per recuperare le riforme mancate serve almeno un decennio e la crescita dovrà probabilmente attendere il 2020. Però il punto di svolta è già a portata di mano, se si consolidano i conti e si ferma il deficit si può raggiungere il pareggio dei pagamenti con l’estero e consolidare la nostra economia che è pur sempre la seconda in Europa. La protesta non serve, l’utopia delle scorciatoie non porta da nessuna parte, solo la politica rigenerata anche moralmente è la condizione indispensabile per tornare a crescere e venire a capo dei molti nodi irrisolti.
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