Una delle ragioni che hanno indotto lo storico francese Dominique Venner a suicidarsi in Notre-Dame nei giorni scorsi è stata sicuramente la strategia (perdente, secondo Venner) messa in atto dall’Occidente per contrastare il disegno egemonico islamista. Ebbene, una decina di anni fa, mentre lo scrivente curiosava tra le armi smilitarizzate di eserciti diversi presso un noto armaiolo di Novi Ligure, questi, avendo appreso della sua professione di ufficiale nell’Esercito, lo sfidò a indovinare la provenienza di un fucile mitragliatore su bipiede (cavalletto di appoggio) che lo scrivente stava appunto ammirando. Ebbene, senza scomporsi più di tanto, chi scrive – omettendo di andare a guardare il calibro, la fabbrica d’armi e l’anno di fabbricazione del mitragliatore – si limitò a osservare da vicino il bipiede prima di emettere il suo verdetto che lasciò a bocca aperta l’armaiolo: «È un’arma di accompagnamento dell’Esercito svizzero».
In realtà indovinare l’origine dell’arma fu piuttosto facile perché il bipiede era congegnato in modo di consentire al tiratore di sparare con l’arma inclinata in avanti, tipico di chi deve puntare dall’alto verso il basso, come i difensori di un Paese montano qual è la Confederazione Elvetica.
Per certi aspetti morfologici la Svizzera è una terra benedetta da Dio perché non avendo coste e grandi pianure è facilmente difendibile dai valichi (cioè dall’alto verso il basso…) e dai passi: basta bloccare questi ultimi e mettere fuori uso gli aeroporti e un eventuale invasore dovrebbe sputare sangue per invadere la Svizzera che, tra l’altro, non ci stupirebbe molto se tenesse minati tutti i trafori che danno sul suo territorio.
Il modello adottato da un Paese che non possiede neppure un esercito stabile ha, però, finito per sviluppare la mentalità della “difesa dall’interno” anche nelle forze di polizia e nelle sue varie Intelligence e, pertanto, difficilmente gli capiterà un 11 settembre come quello di New York, cioè un attacco terroristico proveniente dal suo interno. Il guaio è che quasi tutti i Paesi del mondo, avendo attagliato il proprio modello di difesa militare e civile all’ipotesi di una minaccia militare proveniente dall’esterno, sono poi pressoché inermi di fronte a un attacco proveniente, invece, dal loro interno.
Questo lo capirono bene quei terroristi che organizzarono, rispettivamente, l’abbattimento delle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, quelli di Boston del 15 aprile 2013 e la decapitazione di un innocente passante londinese a colpi di mannarese di macellaio al grido di «Allah Akbar». Tali attentati, per la loro relativa modestia tecnologica e per gli effetti devastanti che sono riusciti a produrre dal punto di vista psicologico (non dimentichiamo che la crisi globale economica e finanziaria in atto è, in parte, figlia loro…), inducono a più di qualche riflessione sulla preparazione antiterroristica degli eserciti e delle forze di polizia occidentali ma partiamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale o giù di lì.
Dopo Yalta, la strutturazione di due blocchi militari contrapposti condizionò la politica degli Stati e la dottrina delle loro armate anche se, dopo l’implosione dell’Urss, la politica ha saputo ridisegnare obiettivi e metodologie, i militari e la difesa nazionale dei vari Paesi non del tutto. Anche perché non era facile e cerchiamo di capirne le ragioni.
Dal momento in cui, nel 1949, l’Unione Sovietica colmò il gap nucleare che la divideva dagli Usa, i dispositivi di difesa di ambo le parti furono sottoposti a una preparazione tecnico-professionale mirata all’impiego in teatri nucleari. Tuttavia, per non compromettere in modo irrimediabile, il raggiunto, fragile, equilibrio del terrore, le due superpotenze continuarono a puntare, almeno durante la prima fase di una situazione di crisi, sulle forze convenzionali, quelle deputate a fornire la risposta militare cosiddetta flessibile. Infatti, tutte le guerre (militari e di Intelligence) che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si fecero “per interposto Paese” furono di tipo convenzionale. Il paradosso fu che l’idea di una risposta flessibile, frutto di una scelta politica, non riuscì a riverberarsi del tutto sull’addestramento di militari e forze di polizia le quali, invece, si orientavano sempre di più verso forme di “guerre stellari” e indagini di altissimo contenuto scientifico.
E la prevenzione? Dove s’insegnò la prevenzione? Gli istituti di formazione, che se non militari come le accademie erano almeno paramilitari come le scuole di polizia, continuarono purtroppo a sfornare personale preparato per una guerra “futurista” e quasi per niente per quella convenzionale che pure, a parole, rimaneva l’opzione più gettonata nei due blocchi militari. Ciò produsse l’effetto che, dove si scontrò la tecnologia esasperata e l’inventiva primigenia, come in Vietnam, in Afghanistan, in Cecenia e a New York, gli americani e i russi pagarono sulla propria pelle i limiti e gli equivoci di quella preparazione monolitica. Evidentemente, negli ultimi quaranta anni, la politica degli Stati è andata in una direzione e la metodologia operativa di militari e polizie in un’altra.
Purtroppo, quando i Paesi arabi produttori di petrolio, col pretesto dell’irrisolta questione palestinese, cominciarono a scompaginare l’Occidente col ricatto energetico e alcuni di essi con quella che oggi è definita guerra asimmetrica, l’intera classe politica occidentale, per salvare il business petrolifero, indugiò a considerarla una passeggera ventata di panarabismo, senza capire che era qualcosa di molto più complesso e pericoloso: era il panislamismo!
Era da quel preciso momento che gli occidentali avrebbero dovuto imparare a fare i conti con un nemico che basava l’esistenza e la dottrina militare su di un irriformabile testo sacro, fermo al VII secolo d.C. e che, come precetto divino, vorrebbe imporre a un’umanità la quale, sebbene in modo avventuroso, ha già doppiato il capo del XXI secolo. Era scontato, dunque, che gli eserciti e le forze di polizia occidentali, proprio perché turgidi di altissima tecnologia, non fossero preparati a fronteggiare azioni terroristiche metodologicamente più vicine alla guerra di Troia che non al nostro tempo.
Infatti, lo spelacchiato asinello afghano che traina un carretto sul quale, tra la paglia, è nascosto un lanciarazzi che appena sparato è nascosto di nuovo sotto la paglia e l’asinello stesso fatto rientrare nella più vicina stalla, non è molto dissimile dal cavallo di legno di Ulisse che provocò la caduta di Troia dall’interno. La grottesca riprova dell’inadeguatezza della preparazione antiterroristica occidentale venne da quel giornalista iracheno che, durante una conferenza stampa di George Bush a Bagdad, lanciò contro il presidente Usa non una ma tutte e due le sue scarpe. I servizi di sicurezza avevano previsto ogni evenienza ma non un gesto di disprezzo che è antico quanto la cultura mediorientale.
Era scontato, dunque, il fatto che le quasi cibernetiche guardie del corpo del presidente Usa (che sospettiamo non brillino per conoscenza della storia mediorientale), provenienti da un Occidente dove, volendo, anche per trovare moglie, basta cliccare su di una tastiera, fossero messe in crisi da un paio di logore scarpe.
Non siamo, ovviamente, dei propugnatori del ritorno alla falange macedone ma ci iscriviamo tra chi ritiene che l’armamentario più efficace di un soldato e di un poliziotto non debba stare nel suo tascapane ma nella sua testa, sotto forma di conoscenza dell’avversario, delle sue tattiche, delle sue tradizioni e perfino dei suoi riferimenti morali e religiosi. Abbiamo motivo di ritenere, invece, che non siano molti gli occidentali dediti alla lotta al terrorismo islamico a conoscere i 6.219 versetti del Corano o, almeno, i concetti basilari dell’islamismo. Eppure è dalla comprensione di questo sacro testo – che peraltro disegna sistemi di vita non molto dissimili da quelli della Bibbia e dal Vangelo – che noi occidentali dovremmo partire per confrontarci (o anche scontrarci se necessario) col miliardo e passa di individui che ci considera degli Shaitan, dei Satana.
È facile prevedere un’obiezione: il mondo non sarebbe molto più bello se potessimo fare a meno di dovere aggiornare l’addestramento e la mentalità d’interi eserciti e polizie? Certamente! Nel governo dei popoli, però, le aspirazioni sono una cosa, la realtà un’altra. Il guaio è che la politica tende spesso a confondere le due cose.
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