Nelle sempre rare giornate lucenti delle primavere varesine accadeva, fino all’anno horribilis 1953 (abbandono delle funicolari e chiusura del Teatro Sociale), di salire al Campo dei Fiori utilizzando la classica accoppiata dell’epoca: tram più funicolare, bianchissimi i primi, bianca e beige la seconda. Nelle famiglie che rinnovavano quel rito si creava un clima di mitica attesa, i bambini, spesso alla prima esperienza, non vedevano l’ora che quella passeggiata in salita si materializzasse davvero, con un festoso corredo di colazioni al sacco, di corse sfrenate sotto le Tre Croci, di caute esplorazioni tra i faggi imponenti che merlettavano – e per fortuna ancora più merlettano – i sentieri alle spalle del Grand Hotel animato allora di luci e ombrelloni ma pur sempre avvolto da un aura di silente, inviolabile, mistero. Due erano le sensazioni indimenticabili di quella ripida ascesa alla montagna di Varese: la prima quando la cabina sbucava dal verde e tra i rami affioravano i laghi, quello di Varese innanzitutto e poi, via via, tutti gli altri come in una rallentata sequenza cinematografica; la seconda quando si approdava alla stazione terminale e lo sguardo spaziava a centottanta gradi su un paesaggio senza fine dove città e paesi, ancora discretamente omogenei nel loro impianto urbano, sembravano isole ancorate nel verde.
Una magia sconosciuta ormai alla stragrande maggioranza dei varesini perché il ramo principale della funicolare e il Grand Hotel giacciono inerti e abbandonati rispettivamente da sessant’anni la prima e da quarantacinque il secondo, definitivamente chiuso nel 1968.
Da allora chiacchiere ne sono state fatte tante, quasi sempre a scopo elettorale ma nulla di concreto è mai uscito dal cilindro né della politica né dell’imprenditoria. Il cambio di proprietà dai milanesi Moneta ai varesini Castiglioni alimentò speranze rimaste lettera morta mentre il tetto del gioiello del maestro del liberty Giuseppe Sommaruga diventava una lucrosa piattaforma di antenne per radio, televisioni e telefonia mobile. Neppure l’elezione del Sacro Monte a sito Unesco, patrimonio dell’Umanità, ha indotto a un ripensamento complessivo della montagna varesina diventata, nel frattempo, Parco regionale di grande interesse naturalistico e Centro di eccellenza astronomico e meteo grazie all’indomabile impegno di Salvatore Furia. Due realtà che, ormai da tanti anni, indicano una vocazione precisa per il Campo dei Fiori come luogo di un turismo sportivo a diversi livelli, salutista, eco sostenibile a tutto tondo.
In quest’ottica tutto o anche solo in parte il Grand Hotel potrebbe ritrovare una funzione precisa, ridiventare metà di una domanda turistica che già oggi privilegia Varese, come provincia verde, rispetto alle consorelle Como e Lecco che contano peraltro su un lago di incomparabile bellezza. Non si tratta di un’impresa impossibile visto che ben due operazioni analoghe sono state condotte in porto nel vicino Cantone Ticino, ad Agra e a Cademario da investitori coraggiosi.
Ad Agra, sulla Collina d’oro di Lugano, è andata in porto la trasformazione del vecchio, gigantesco sanatorio a forma di anfiteatro (1912) in una SPA di alto livello che sta gradualmente facendosi strada in questo particolare mercato. Il centro terapeutico di Agra fino alla fine dell’ultima guerra mondiale fu esclusivamente riservato a clientela tedesca, in realtà funzionò anche come copertura di un centro di cospirazione nazista nella Svizzera meridionale.
Ugualmente strappato a un destino di lungo e inesorabile degrado il vecchio Kurhaus, in stile liberty tedesco (1914), di Cademario. Situato a ottocentocinquanta metri d’altezza, venti minuti d’auto da Lugano, un balcone sul lago Ceresio, è stato trasformato in un albergo di qualità multifunzionale (residenziale, salutista, sportivo, congressuale ). Due storie, quelle di Agra e Cademario, riproducibili anche per il Grand Hotel del Sommaruga, tra l’altro collocato in un contesto paesaggistico più invidiabile. Servirebbe un progetto accurato e di grande respiro preliminare a investimenti rilevanti giustificabili solo all’interno di un piano complessivo e articolato di rilancio dell’intera montagna varesina. Ma da sessant’anni tutto è lettera morta.
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