Una televisione cattolica, molto attenta ai suoi scopi istituzionali, quando si occupa di sport a volte permette ai suoi collaboratori di non mantenere il suo apprezzato stile. In una trasmissione dedicata al calcio mi ha sorpreso il taglio un po’ da tifo locale nonostante l’emittente abbia una copertura nazionale. Peccato veniale il provincialismo, qualcosina di più se l’audience arriva sino alle Alpi.
Oggi se ci sono di mezzo il calcio e le squadre del cuore difficilmente si riesce a rimanere sereni, gli occhiali della passione ingigantiscono o rimpiccioliscono episodi e situazioni, con tutte le conseguenze del caso.
Il “tifo” che affiora a livello di professionismo mediatico non crea danni, ma può non aiutare a combattere la buona battaglia tesa a recuperare a un minimo di buon senso la inquietante galassia degli ultratifosi. Che sostanzialmente sono dei cultori della violenza, fisica o verbale.
Il problema è nazionale, nel nostro territorio da tempo non si sono presentate situazioni di allarme con la sola eccezione dei cori di Busto Arsizio contro il milanista Boateng. L’episodio ha dato il via, finalmente, alla campagna antirazzistica nel calcio.
Varese ha una sua storia del tifo organizzato, ricca di belle pagine se andiamo alle origini che hanno più di mezzo secolo, con pagine nere invece ai tempi in cui l’intera comunità passò, addirittura in Europa, per antiebraica a causa di una vergognosa manifestazione al palasport contro la squadra israeliana del Maccabi. La peggio “politica” dietro l’iniziativa, non il colore della pelle.
La Varese dello sport, e non solo, davanti al razzismo è sempre stata di esemplare correttezza e se poi mettiamo a fuoco gli ambienti cestistici, nostri e nazionali, possiamo dire che essi sono stati avanguardia assoluta nell’accoglienza e nel rispetto di giocatori e allenatori di colore. Sempre, sin dagli anni del dopoguerra.
Non fu certo razzistico l’unico screzio che io ricordi, tra l’ americano Bough e Sergione Marelli -siamo ai tempi eroici – che vide il giocatore varesino andare per un anno a giocare a Cantù a causa di personali dissensi tecnici e caratteriali con il colored, per la verità un po’ ganassa,
Anche nel Varese 1910 il colore della pelle non ha mai avuto rilevanza ed è bene che si continui così per più motivi. Per una questione di civiltà che è cultura e storia nostre, perché qualsiasi accenno di stampo razzistico comporterà interventi da parte dei dirigenti federali (finalmente si sono svegliati). Infine perché anche un modesto “buu- buu” sarebbe offensivo pure nei confronti dei giocatori di colore che vestono la maglia biancorossa.
Restano le antipatie e le contrapposizioni di varia natura con gli ultras di altre città. Il loro livello va abbassato e d’urgenza: i cittadini e lo Stato hanno oggi ben altri problemi e non è più tollerabile che ci siano domeniche di guerriglia.
Appare sempre più probabile che in caso di nuovi incidenti arriveranno non poche domeniche “in bianco” per squadre e teppisti. E anche per i bilanci delle società.
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