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Società

CONTRO LA DIGNITÀ UMANA

GIUSEPPE BATTARINO - 24/05/2013

Quando la comunicazione di massa si appropria di un problema, il rischio concreto e frequente è che ne faccia una moda destinata alla consunzione rapida: con esiti indolori per i consumatori di notizie ma dolorosi per chi vive nella propria condizione umana quel problema.

A questo approccio si associano, di solito, parole-chiave svuotate di senso, che evitano la fatica di pensare.

La realtà dolorosa della violenza sulle donne si è da qualche tempo ridotta a chiacchiere sul cosiddetto “femminicidio”.

Termine onnicomprensivo divenuto utile a descrivere omicidi con donne vittime (il delitto si chiama “omicidio”, perché la legge punisce “chiunque cagiona la morte di un uomo”: con la maiuscola, dovuta all’essere umano, nessuno ne ha mai dubitato), piuttosto che persecuzioni dirette o mediate dalla ripugnante violenza verbale che dilaga sui social network e sulla Rete in generale.

Di fronte a questa deriva sono particolarmente significative alcune recenti affermazioni della Presidente della Camera.

Intervenendo il 16 maggio scorso a un convegno organizzato dall’Unione forense per i diritti umani e da Earth-Nlp, Laura Boldrini ha chiesto di evitare, nelle quotidiane cronache su fatti di violenza contro le donne, i termini “emergenza” e “raptus”.

La conseguenza logica, particolarmente apprezzabile per chi si occupa di questo tema – nelle professioni giuridiche piuttosto che nel sociale – è che non si debbano inventare nuove leggi, dettate, appunto, da un’ipotetica emergenza.

È semmai vero che se episodi gravi si ripetono con frequenza, a monte di essi “c’è una violenza stratificata e con radici profonde”. Una mancanza di cultura della dignità umana che crea le precondizioni per deliberate e ripetute aggressioni di ogni tipo, non per occasionali “raptus”.

Si deve allora far sì – dato atto dell’esistenza di leggi sin da ora utili a questo scopo – che in tema di violenza contro le donne si possa “prevenire, difendere, giudicare” (riprendendo il titolo del Convegno dell’Associazione Matrimonialisti Italiani che si terrà a Varese il prossimo 31 maggio).

E allora l’invito della Presidente della Camera a “capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione” auspicando “una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne” è significativo e importante.

Se dovesse avere un seguito non confinato in commissioni di soloni metropolitani, ma aperto al contributo delle realtà giuridiche, della prevenzione, del volontariato, di luoghi geograficamente e socialmente anche lontani dalle sedi politiche centrali, costituirà il supporto per un avanzamento non solo “operativo” ma anche culturale.

La lettura di un passo del Catechismo (§1930) ci colpisce con forza, quando manifesta il timore di una società che non solo può disconoscere i diritti della dignità umana ma anche “irriderli”.

Non è forse questo che accade con la rivendicazione della libertà individualista dello sberleffo, dell’insulto, della volgarità amplificata dalla Rete? il cui oggetto, può essere indifferentemente il “politico” idiotamente inteso in maniera indifferenziata, o la “femmina”: con l’acme rappresentata dall’insulto sessista nei confronti della donna impegnata in politica.

Mentre, in parallelo, si dà purtroppo per acquisita la visione della “donna-corpo”, esibita sui mezzi di comunicazione di massa, avvolta da un’aura di totale e completa disponibilità ai desideri, che per le menti meno difese dalla cultura diventa “oggetto-disponibile”.

Quelle menti, quando si scontrano con una realtà più complessa, in cui la donna rivendica la propria dignità e libertà, si ribellano scompostamente e finiscono col guidare alla violenza mani che si chiudono a pugno per colpire, o che, per colpire, impugnano coltelli, pistole, telefoni, computer.

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