Grillo accusa il Papa di qualunquismo. La colpa di Francesco è di muovere ogni giorno le acque della questione etica e sociale, oltre che spirituale. Muoverle con i fatti: moniti di preciso scopo, azioni d’obiettivo concreto. Per esempio: avvertire del pericolo d’un cristianesimo da salotto e dare indicazioni pratiche per ravvivare la vita delle parrocchie. Bergoglio fa quel che dice. Grillo dice senza sapere quello che si fa. Grillo, poi: aveva l’occasione per contribuire a un rinnovamento radicale del Paese, ma di fronte alla scelta tra dire e fare è rimasto al dire. Dire, dire, dire. Perfettamente allineato con il costume tradizionale del Paese, che si crogiola nel culto della sua sterile verbosità. Ogni tanto bisognerebbe dedicarsi a ciò che si definisce un esercizio responsabile, però è proprio su quest’ostacolo che ci si abbatte rovinosamente (regolarmente). A proposito di cristianesimo da salotto, e Grillo a parte: qui da noi è probabilmente meno consueto che altrove. Passare un sabato e una domenica nel convento di viale Borri per capire quanti sono i gruppi dello spontaneismo che condividono impegno, preghiera, sacrificio e allegria. Sembrerà strano, ma è possibile tenere insieme tutto questo. Compresa l’allegria.
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Si potrebbe cominciare a fare qualche prova di valorizzazione del Sacro Monte, in attesa d’indorarne l’immagine per l’Expo 2015. Renderlo – a proposito di qualunquismo – meno qualunque, più accogliente, meglio fruibile. Tenere razionalmente lontane le auto, incentivare l’accesso col trasporto pubblico. Promozionare, a suon d’agevolazioni e sconti, la funicolare. Coordinare iniziative di commercio e arte. Eccetera. Insomma, non buttare un’intera stagione estiva, darsi da fare, dimostrare di credere in quel che il Sacro Monte è, non solo in quel che potrà essere nell’epoca dell’Esposizione milanese. Qualche fatto (va bene anche fatterello) di più, qualche parola (soprattutto parolona) di meno. L’arciprete invoca da tempo questa modesta disponibilità, e non cava ragno dal buco. Più che del turismo weekendaro, gl’importa della frequentazione pellegrina: perché non dargli retta? Dice cose di buonsenso, né religiose né laiche: perfino ovvie. Ecco, ci vorrebbe una rivoluzione dell’ovvio, propedeutica a ogni altra rivoluzione.
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Prima gli hanno affidato, come se fosse uno qualunque (sempre in tema di qualunquismo) la presidenza della commissione paesaggio, poi hanno scoperto ch’è incompatibile col ruolo. Scoperto, ehilà, dopo un bel po’ d’anni. Il presidente non più presidente è l’agronomo internazionalmente celebre Daniele Zanzi, che i nostri lettori bene conoscono per gl’interventi (appassionati) su temi diversi della vita cittadina. Gli scopritori ritardatari sono gli amministratori comunali. Come mai il ripensamento? Sono sopravvenuti incarichi e incombenze che Zanzi non aveva allora e ora ha? Nient’affatto. La situazione non è cambiata. Forse è cambiata la percezione delle critiche che Zanzi fa – di frequente, e nell’interesse collettivo – ai governatori della municipalità. Certo non sarà questa l’ipotesi giusta, e guai a pensar male; però passa l’idea (con l’astensione pilatescamente contorsionistica del PD) che lo sia. Ed è un’idea disincentivante per chiunque voglia adoperarsi con disinteresse a favore delle sorti generali della sua città. Fate un bel gesto, cari rappresentanti civici: dite d’aver sbagliato e ricollocate Zanzi dove gli spetta d’essere.
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Anche quest’anno il Varese pallonaro, dimostrando (per chiudere con l’argomento qualunquismo) di non essere una squadra qualunque, finisce in alto alla classifica. Non disputerà i playoff per la serie A, però c’è andato vicino. Critiche a diluvio: obiettivo fallito, incapacità varie, demeriti di Tizio e flanella di Caio. Insomma, che delusione, ci si racconta qui e là. Proprio così? Dovrebbe essere il contrario: che sorpresa, aver disputato ancora una volta un campionato d’eccellenza. Quando poi il j’accuse viene da ambienti della città che, pur potendolo, non han mosso un dito (tirato fuori un euro) per sostenere la causa biancorossa, sorge il sospetto che verso il calcio vi sia un atteggiamento non solo di snobistica sufficienza: anche di disattenzione sociale. Avremmo l’opportunità di costruire un club modello e monello insieme: puntare sui giovani, coinvolgere il territorio, mischiare tradizione con prospettiva. Invece lasciamo il campo agli altri, ai forestieri, e li sommergiamo d’obiezioni se non si rivelano galline dalle uova d’oro. Come minimo, è insensibilità sportiva. Come massimo, miopia generazionale. Una volta gl’imprenditori varesini credevano nel Varese. Non erano imprenditori qualunque.
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