Sabato 11 maggio, chiesa del Gesù, a Genova: mi ero recato per partecipare alla Santa Messa delle 7 e 15, prima di iniziare la seconda giornata di un interessante corso di aggiornamento professionale. La sera precedente al termine della prima giornata del corso, che aveva come tema “la disassuefazione dal fumo nella pratica clinica”, avevo ispezionato il centro storico a ridosso del porto, alla ricerca di una messa mattutina ed ero entrato nella bella chiesa barocca dei Gesuiti, intitolata al nome di Gesù, che contiene dei preziosi dipinti, tra i quali due Rubens, raffiguranti uno la circoncisione di Gesù e l’altro Sant’Ignazio che guarisce una ossessa; avevo chiesto conferma dell’orario ad un anziano padre gesuita, il quale, oltre a rispondere con cortesia alla mia domanda, mi aveva anche dato un cordiale benvenuto ed alcune brevi notizie sulle preziose opere d’arte lì esposte.
La mattina dopo, essendo arrivato in Chiesa con una decina di minuti di anticipo, avevo deciso di approfittare della presenza di un confessore.
Entrato nel confessionale vi ho ritrovato lo stesso Padre della sera prima, il quale, dopo aver ascoltato la mia accusa dei peccati, mi ha ricordato che noi “siamo i tralci e Gesù è la vite”, accompagnando le sue parole con uno sguardo di profonda simpatia. Mentre me lo diceva mi sono sorpreso a guardare la vicenda, forse per la prima volta, dal punto di vista della vite: la questione principale non era rappresentata dal fatto che il tralcio potesse portare frutto solo rimanendo attaccato alla “vite”, ma che la vite, cioè Gesù, avesse bisogno di un tralcio come me per portare i suoi frutti nel mondo. E questo costituiva la sorgente di una pacificante certezza: il frutto che porto non è il mio, ma è il frutto di Dio.
Non è una questione di coerenza o di capacità, è solo una questione di fedeltà amorosa.
All’uscita dalla Messa il sole del mattino risplendeva più luminoso.
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