C’è un libro che racconta con magnifiche fotografie in bianco e nero firmate da Carlo Meazza, autentici scatti d’arte, edifici, campagne, laghi, montagne, brandelli di carta, e con una serie di saggi la storia di Antonia Pozzi e Vittorio Sereni, due compagni di Università degli anni ’30 alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano, allievi del filosofo Antonio Banfi, capo scuola di una lunga teoria di grandi intellettuali, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, da Enzo Paci a Dino Formaggio ad altri ancora. I due erano destinati, Sereni prima e la Pozzi dopo (dimenticata per decenni) a diventare celebri poeti, fra i più importanti del ‘900: Vittorio Sereni e Antonia Pozzi, un luinese e una milanese, un figlio della media borghesia impiegatizia e una figlia di una famiglia dell’aristocrazia, ricca e influente.
Il libro, edito da Mimesis, ha un titolo illuminante, “Luoghi di un’amicizia” e un contenuto prezioso che percorre l’esistenza dei protagonisti dal loro primo incontro nei corridoi e sui banchi della “Statale”.
Non voglio, perché non ne ho i mezzi, addentrarmi nell’esame della loro poesia quanto sfiorare il terreno sul quale e nel quale i due giovani si conobbero, si stimarono, si frequentarono. L’occasione è stata una presentazione del libro a cui ero presente.
Vittorio Sereni, strappato dopo la fine degli studi e dopo le prime esperienze letterarie dalla seconda guerra mondiale che gli farà conoscere la prigionia in Africa Settentrionale con la rovinosa caduta dell’esercito del duce sul fronte di Sicilia, della delicata, complessa, colta, fragile amica aveva apprezzato sin dal primo momento la poesia. Ne afferrò subito la straordinaria potenza. L’esperienza durò troppo poco perché Antonia Pozzi, a un certo punto della sua vita, decise di farla finita.
Si uccise infatti il 3 dicembre 1938 nei prati dell’Abbazia di Chiaravalle, un luogo ben conosciuto a cui soleva approdare nelle sue passeggiate in bicicletta dalla elegante residenza di piazza della Conciliazione approdando alla Milano del sud-est dove trascinava la sua difficile esistenza la popolazione operaia (quartiere Corvetto), il Porto di Mare e la disperata, povera, dimenticata Casa degli Sfrattati, un ghetto miserabile che descrisse così: “La fame non appagata, gli urli dei bimbi non placati, e l’odore, odor di cenci, d’escrementi, di morti, serpeggiante per tetri corridoi”.
Quando morì aveva ventisei anni, un tormento nel cuore, un impasto di sentimenti e di profonde amarezze che ne accompagnarono il gesto: non la dichiarazione d’amore probabilmente negatale la sera prima alla fine di un concerto al Conservatorio dal giovane che amava (chiave riduttiva prima che ingiusta), quel Dino Formaggio di due anni più giovane, studente e assieme lavoratore (era di famiglia povera), socialista, residente appunto al Corvetto, futuro docente universitario; non la violenza di un “padre-padrone” avvocato notissimo che le aveva fatto troncare nel 1933 una relazione affettiva con Antonio Maria Cervi, il suo prestigioso professore di latino e greco al liceo e che, una volta morta, le censurerà molto di quanto scritto; non la ricerca affannosa di una poesia che la ponesse al di fuori dai modelli del tempo come ha illustrato sere fa il critico Romano Oldrini, dominus del “Premio Letterario Piero Chiara” in una coinvolgente lezione a Vergiate, accanto a Carlo Meazza, appuntamento purtroppo sfregiato dall’assenza di pubblico.
Una morte che aveva altre radici: certo il peso delle delusioni esistenziali, la fatica di vivere, ma mi piace pensare anche per l’aria che respirava, il regime che la strozzava, le speranze di una società libera che si allontanavano per sempre, il dilemma insoluto che le si era posto dinnanzi, un bivio drammatico, da una parte l’arte, dall’altra la vita. Come fare?
Una frase mi incoraggia a procedere lungo questa strada forse, ma mi posso sbagliare, poco esplorata (perché estranea al tema poetico in senso stretto?) e che del gesto estremo di quello spirito eletto, amante della montagna e della solitudine nell’amata Pasturo ai piedi delle Grigne, alla Zelata sul Ticino, al mare di Portofino, offre una significativa chiave di lettura. Quella frase è nel corpo di una lettera, fra le tante, inviata proprio nel fatale, drammatico 1938, a Vittorio Sereni: “Forse l’etàdelle parole è finita per sempre”. Una requisitoria, tagliente, assoluta. La stagione della privazione dei diritti già lesi si era dilatata.
Antonia Pozzi con quelle poche terribili parole aveva voluto dire quello che pochi italiani avrebbero saputo in quelle giornate esprimere. Era l’avvento delle odiose leggi razziali (e il contemporaneo e successivo “rullare dei tamburi di guerra”, come ha ricordato Romano Oldrini), stavano non solo espellendo dal consesso civile la numericamente modesta comunità ebraica (44 mila cittadini, peraltro perfettamente integrati e in gran parte fascisti, l’uno per mille dei 44 milioni di abitanti del Paese) ma, assieme, accentuando la poderosa morsa del regime destinato di lì a poco a muovere sui fronti balcanici e quelli russi nel delirante sogno di rimanere al passo del Reich dopo le precedenti sanguinose e barbare imprese coloniali.
Antonia Pozzi aveva cercato di resistere a quel clima torbido. Aveva scritto ancora, esplicito epitaffio alla vigilia della morte: “Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite”. Il peso appunto del fascismo che stava debordando. Il brusco segnale che si era abbattuto su un’Italia distratta l’aveva segnata. Se n’erano andati all’estero, per sfuggire alla possibile cattura, Paolo e Piero Treves, ebrei, suoi amici carissimi, figli di Claudio Treves, il politico socialista, morto qualche anno prima esule in Francia. Era stato il campanello d’allarme finale. La lusinga della morte già in passato conosciuta, come ha ricordato nel suo splendido saggio l’italianista Graziella Bernabò, “vista come riposo e dolcezza”, come un andare verso “i prati del sole” (da “Funerale senza tristezza” del 1934), si era affacciata prepotente.
Vittorio Sereni, nell’anniversario della morte, in “3 dicembre” l’avrebbe ricordata con versi struggenti. “ (…). Pace forse è davvero la tua/e gli occhi che noi richiudemmo/per sempre ora riaperti/stupiscono/che ancora per noi/tu muoia un poco ogni anno/in questo giorno”.
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